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Io, clandestino a Lampedusa
Ripescato in mare e rinchiuso nel centro di permanenza temporanea, l'inviato
dell'Espresso Fabrizio Gatti ha vissuto una settimana con gli immigrati in
condizioni disumane. E' stato poi liberato con il foglio di via
di Fabrizio Gatti
Un nome inventato e un tuffo in mare. Non serve altro per essere rinchiusi
nel centro per immigrati di Lampedusa. Basta fingersi clandestino e in poco
tempo ci si ritrova nella gabbia dove ogni anno migliaia di persone
finiscono il loro viaggio e dove nessun osservatore o giornalista può
entrare. La via più veloce per infiltrarsi nella Cayenna dell'Unione europea
prevede un salto dagli scogli e qualche ora in acqua. Se non si vuole
partire dalla Libia e rischiare di affondare con le barche sovraccariche,
non esistono alternative. Così ho scelto un nome straniero e uno stratagemma
preso in prestito da Papillon, il mitico film del 1973: per fuggire dalla
Cayenna, quella vera, Steve McQueen si butta dalle rocce e si affida
all'Oceano aggrappato a una zattera di fortuna. Solo che qui lo scopo non è
scappare ma farsi prendere. Ed è ciò che mi è successo: ripescato da un
automobilista, catturato dai carabinieri sul lettino del pronto soccorso e
rilasciato la settimana dopo, la sera di venerdì 30 settembre. Libero, con
la possibilità di andare a lavorare in qualunque città d'Europa come
clandestino, nonostante i precedenti penali e una condanna nel 2004.
Comincia e finisce così il diario di otto giorni da prigioniero nell'inferno
di Lampedusa. Il prezzo da pagare per assistere in prima fila a umiliazioni,
abusi, violenze e a tutto quanto l'Italia ha sempre nascosto alle ispezioni
del Parlamento europeo e delle Nazioni Unite. Ma è anche l'opportunità per
vivere l'immane solitudine di uomini, donne e bambini che, nella fatica di
migliorare la propria vita, hanno avuto contro il deserto, i trafficanti, le
tempeste e adesso che sono sbarcati hanno contro la legge che dovrebbero
rispettare.
Venerdì 23 settembre
Il Mediterraneo stasera ha il respiro lento. Sotto il cielo senza luna,
l'acqua non si vede. Si sente soltanto il suono, due o tre metri laggiù ai
piedi della scogliera. Prima del salto, bisogna sincronizzarsi con il ritmo
del mare. Entrare in acqua quando l'onda è più alta, sfruttare la risacca e
allontanarsi subito dalle rocce. Uno. Due. Al tre il freddo già avvolge il
corpo: da questo momento sono Bilal Ibrahim el Habib, nato il 9 settembre
1970 nel villaggio immaginario di Assalah, distretto di Aqrah, Kurdistan
iracheno. Sugli scogli non sono rimaste tracce. Scarpe e calze sono state
affondate con quattro sassi. E anche il rotweiler randagio che aveva deciso
di seguirmi e passare la sera in compagnia, adesso se ne sta andando un po'
perplesso. Bilal non ha molto con sé. Ha addosso pantaloni di tela neri,
boxer, maglietta di cotone, una felpa blu, un pile pesante e un giubbotto di
salvataggio con una scritta in arabo. Sul petto Bilal stringe una borsa
sportiva. Dentro ci sono tre scatolette di sardine 'Product of Morocco', tre
panini ormai poltiglia, una bottiglia d'acqua e un paio di vecchie ciabatte
di plastica. Ma quella borsa, gonfia d'aria, aiuta soprattutto a
galleggiare. È la serata ideale per buttarsi in mare senza essere visti. Nel
cielo rimbalzano le luci e i suoni di 'O' Scià', il festival di Claudio
Baglioni. Quasi tutti i turisti, gli abitanti e le pattuglie di polizia e
carabinieri sono allo spettacolo. E Bilal può nuotare indisturbato fino a un
promontorio su cui brillano le finestre di una villa. C'è un andirivieni di
ragazzi, auto e scooter. E prima che qualcuno si accorga dell'uomo in mare,
passano almeno quattro ore e mezzo.
La gente di Lampedusa e le infermiere del pronto soccorso hanno regalato
tutta la loro generosità. Ma adesso Bilal è su una macchina dei carabinieri.
I fari illuminano una strada senza uscita accanto all'aeroporto. Poi un
cancello sulla destra, decorato dal filo spinato. Apre un carabiniere in
tuta antisommossa, anfibi e pistola nella fondina. Saranno le due e mezzo di
notte. Anche se per la legge resta un libero cittadino, da qui Bilal non può
più andarsene. "Dal pronto soccorso ci hanno consegnato questo", dice al
collega il militare sceso dall'auto. Bilal viene accompagnato a testa bassa
fino a un piccolo cortile dove aspettano altri carabinieri e un ragazzo con
la divisa della Misericordia, l'associazione che ha in appalto il centro di
Lampedusa. Il ragazzo offre un bicchiere d'acqua e quattro confezioni di
cornetti. Poi toglie da un sacchetto una maglietta di cotone e una tuta da
ginnastica: "Mettiti queste che stai più caldo", dice. "Come ti chiami? Da
dove vieni?", vuol sapere un carabiniere. "I don't understand", sussurra
Bilal, non capisco. La domanda viene rifatta in inglese maccheronico.
"Kurdistan? Ma se questo è più bianco di me, come fa a essere curdo?",
chiede un carabiniere molto abbronzato. Bilal tiene gli occhi bassi sulle
sue ciabatte logore e ascolta le voci. "Un curdo che parla inglese. Sarà.
Non è che questo è un giornalista della Cnn infiltrato qui dentro?". "Sì, o
magari è un giornalista italiano?". "Ma va', gli italiani non fanno queste
cose", risponde la prima voce. Pericolo scampato. "Bilal, you must tell ze
verity", urla un carabiniere, devi dire ze verity. "Ze verity, understand?
Se no bam bam", e mima gli schiaffi. Verity? In inglese verità si dice truth.
Sarà un errore o un tranello? "Bilal vieni", chiama il ragazzo della
Misericordia. Trascina un materassino di gommapiuma preso da una pila di
materassi. Lo sistema in corridoio, tra una fila di cessi puliti e la porta
di un altro gabinetto molto sporco. Poi lo ricopre con un lenzuolo di carta.
"Stanotte lo facciamo dormire qui", dice il ragazzo ai carabinieri. Un altro
immigrato sta russando, avvolto come una mummia in una coperta. E da una
porta semichiusa si intravvedono le sagome di decine di donne stese sul
pavimento e un bambino. Quando Bilal torna dal gabinetto, dove è sempre
stato seguito da un carabiniere, trova il suo posto occupato. Più di 200
mosche hanno pensato che quel lenzuolo bianco e fresco di cartiera fosse per
loro. Ma sono mosche educate. Si alzano quando Bilal arriva e si
riappoggiano su di lui soltanto dopo che si è sdraiato. Il tentativo di
scacciarle è una battaglia persa. Dal pavimento sale un fortissimo odore di
urina. Dal soffitto la luce non si spegne mai. I carabinieri ridono e
parlano a voce alta tutta la notte. È difficile prendere sonno. E poi c'è il
problema del colore della pelle. Occorre inventarsi una spiegazione
credibile prima di domani mattina. Forse questa può andare: Bilal è così
pallido perché il papà è curdo, ma la mamma è bosniaca.
Sabato 24 settembre
L'alba si annuncia con un fragore assordante. Nel dormiveglia sembra il
rumore di un aspirapolvere. No, forse è una lucidatrice. Ma no, è troppo
forte. La puzza risolve il mistero. Sì, queste sono esalazioni di jp, il
carburante degli aerei. Ecco cos'è: l'aeroporto accanto. Quando gli Airbus
fanno manovra, sparano il getto dei motori dritto dentro le finestre dove
dormono gli immigrati. È ancora buio, ma ormai sono tutti svegli. Dalla
stanza delle donne escono ragazze eritree o etiopi. Altre appaiono da una
seconda porta. C'è anche una donna con il pancione della gravidanza. Il
conto è subito fatto: tra teenager e adulte sono quasi una cinquantina. In
più Bilal e l'altro uomo che dorme in corridoio. Per tutti c'è un solo
water, quattro docce e qualche lavandino. I carabinieri non vogliono che si
usino le loro turche, le uniche che profumano di candeggina. Per evitare
domande e guai, Bilal finge di dormire. Ma osserva e ascolta. C'è un viavai
di carabinieri e qualche poliziotto intorno a lui. Si chiedono se sia
davvero curdo. Le ragazze africane passano il tempo ad annodarsi treccine.
Una di loro, che non avrà più di vent'anni, ha tutte le unghie smaltate a
metà. La parte sopra è abbellita da un leggero velo perlaceo, la parte sotto
è cresciuta senza cura. Forse dove finisce lo smalto è cominciato il suo
viaggio. Fuori, nel piccolo cortile, pendono scarpe, pantaloni e maglie
delle ultime arrivate. Ieri sera sono sbarcati 161 immigrati, poi altri 37,
e poi Bilal. C'è un libro del Corano messo ad asciugare al sole. "Bilal",
urla forte una voce. "Tu", dice un poliziotto e con la mano fa capire che
bisogna seguirlo.
L'ufficio identificazioni della polizia è una grande stanza con quattro
scrivanie. Bilal lo fanno sedere in fondo a destra. Di fronte a lui due
poliziotti in borghese, un computer e un ragazzo con il volto berbero. È
l'interprete: "Parli arabo?", chiede in arabo. "Sì". "Da dove vieni?".
"Kurdistan. Ma vorrei continuare in inglese, l'arabo non è la mia lingua,
gli arabi hanno occupato la mia terra", risponde Bilal. Scegliere la lingua
è il primo nell'elenco dei 'Diritti degli immigrati' scritto su carta della
Prefettura di Agrigento e appeso in corridoio. All'interrogatorio si
aggiunge una ragazza che chiamano dottoressa e indossa una maglietta
mimetica stile esercito americano. Vuole sapere tutto. Bilal racconta di
voler andare in Germania. E di essere stato chiuso in un container in
Turchia, caricato su un mercantile e messo su una lancia a motore a qualche
miglio dalla costa italiana. Poi la lancia si è spaccata, è affondata e
Bilal si è salvato a nuoto. Vogliono sapere della scritta in arabo sul
giubbotto salvagente. "C'è scritto: La felicità 3. Forse è il nome di una
nave", spiega l'interprete di arabo. "Tu sai cosa c'è scritto?", chiede la
dottoressa, sempre in inglese. "Sì, as Soror, la felicità: tutti noi siamo
venuti in Europa a cercarla". Bilal deve ripetere tre volte la storia del
suo viaggio. Cercano di metterlo in contraddizione. Fanno domande tranello:
"Se sei curdo, parli urdu". "No, l'urdu è una lingua del Pakistan". Poi si
arrabbiano: "Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella
scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi",
promette la dottoressa. "Ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala
delle torture?", le chiede un poliziotto robusto che si è appena aggiunto al
gruppo. Ma forse è solo un modo per capire se Bilal parla italiano e per
spaventarlo. L'interrogatorio ritorna subito a un volume più umano. La
dottoressa prende il telefono e protesta con la stazione dei carabinieri
perché chi ha prelevato Bilal al pronto soccorso non ha scritto il verbale e
nessuno sa dove sia stato pescato e chi lo abbia portato nel centro. "Ecco,
devi dire al maresciallo che è un coglione", conclude la dottoressa. Dopo
l'interrogatorio, bisogna lasciare le impronte digitali. Le dita e il palmo
delle mani vanno premuti sul vetro rosso di uno scanner e si è
automaticamente schedati. Fuori, 21 teenager aspettano il loro turno.
Avranno tra i 15 e i 20 anni, visti insieme sembrano una classe di liceali
in gita. Sono tutti di Kerouane, in Tunisia, tutti vicini di casa, tutti
partiti con la stessa barca. Bilal non ha il tempo di sedersi accanto a
loro. Un poliziotto gli consegna un biglietto con il numero di matricola 001
e lo affida ai carabinieri. Lo portano davanti a un grande cancello verde
incorniciato da rotoli di filo spinato. Un altro carabiniere apre il
lucchetto, poi sblocca il catenaccio. Subito dopo il cancello si richiude.
Centinaia di immigrati sono seduti sull'asfalto in file da dieci tra due
baracche prefabbricate e quattro container. "Oggi siamo a quota 447",
avevano detto nell'ufficio di polizia. I carabinieri gridano e ridono. Sulla
tuta hanno il distintivo rosso del reparto: 1 Brigata Mobile. "Vai in fondo,
muoversi, muoversi", urla uno dei militari. Bilal va a sistemarsi dietro a
tutti, accanto a un cinquantenne magro e piccolo con la maglia di Bergkamp,
e due ragazzi egiziani. Due rigagnoli di liquido violaceo escono da una
porta a destra e scivolano sotto i piedi delle ultime file. Il liquame puzza
di urina e fogna. "Seduti", urla uno dei carabinieri, "Sit down". "Ma qui in
fondo è una schifezza", dice il collega, un ragazzone con accento
napoletano. "Il maresciallo ha detto di farli sedere. Sit down", grida più
forte il primo e sorprende un immigrato alle spalle, frustandolo sulle
orecchie con i suoi guanti in pelle. Bilal e gli altri si erano accovacciati
sulle caviglie per non sporcarsi con il liquame. Ma non basta ai
carabinieri. Per evitare botte bisogna rassegnarsi e bagnarsi. Là davanti
l'interprete berbero e un poliziotto in borghese chiamano i prossimi che
lasceranno il campo. Un aereo è in partenza per il Cpt di Bari o forse per
la Libia. Nessuno spiega nulla. Il carabiniere con i guanti di pelle tenta
di chiudere a calci la porta da dove escono i rigagnoli. Poi si piazza in
posizione strategica e sempre con i guanti frusta sulle orecchie chi viene
chiamato dall'interprete. Qualcuno deve ripassargli davanti per andare a
prendere in camerata il sacchetto con le poche cose. E si riprende un'altra
sventola. Ride il carabiniere, occhiali e carnagione pallida. E ridono anche
i suoi colleghi. Altra frustata. Per loro è solo un gioco. L'interprete e i
poliziotti fanno finta di non vedere. Ma tra le file sedute a terra, ragazzi
e uomini mormorano di rabbia. "Italiano, puttana, cornuto", sussurra lo
smilzo con la maglietta di Bergkamp.
Non sembra per niente un centro di accoglienza. E qui dentro non c'è nemmeno
l'atteggiamento di rispetto che i poliziotti dell'ufficio di identificazione
avevano alla fine mantenuto. Bilal e tutti gli altri devono rimanere seduti
e rannicchiati per più di un'ora perché dopo l'appello si resta in coda per
il pranzo. Un piatto di plastica con pasta e tonno, un altro con bocconcini
di pesce fritto (forse) e verdura in agrodolce, un panino, una mela e una
bottiglia di due litri d'acqua da dividere in due senza bicchieri.
Un'occasione per socializzare ma anche un rischio se qualcuno è entrato con
malattie infettive. Nemmeno Bilal è stato visitato dal medico del centro. Si
mangia per terra sotto il sole rovente, appoggiando pane e mela sull'asfalto
o sui muretti. Il pomeriggio bisogna trovare un posto dove ripararsi dal
caldo. I letti a castello sono tutti occupati. Dormono a decine perfino sui
tavoli della mensa. Nessun assistente della Misericordia spiega a Bilal cosa
deve fare. Dietro alla mensa-dormitorio c'è qualche materassino lasciato da
chi è appena partito. Guardando meglio molti sono pieni di insetti
minuscoli, forse pulci. E non ci sono nemmeno le lenzuola di carta per
proteggersi, abbandonate fuori perché un poliziotto aveva fatto capire che
la Misericordia le avrebbe distribuite una volta dentro la gabbia. Ma non
era vero. Bilal crolla addormentato sotto il sole, proteggendosi la testa
con l'asciugamano che gli hanno dato come coperta. Lo risveglia un egiziano:
"Ehi, ashara-ashara". Ashara? In arabo significa dieci. "Ashara-ashara",
urlano pattuglie di carabinieri entrate nel campo con i manganelli Tonfa
infilati nel cinturone. Bisogna andare a risedersi sul viale dei liquami. In
file da dieci, "ashara-ashara". È un altro trasferimento: questa volta
l'aereo dell'Alitalia parte per Crotone. Chiamano anche lo scafista egiziano
di Rosetta che ha guidato la barca di 161 persone arrivata ieri sera.
Carnagione chiara, capelli neri voluminosi. Nel suo zainetto gli hanno
trovato (e lasciato) cinquemila euro in contanti, la paga per il suo lavoro.
"Questo qua è la terza volta quest'anno che passa da Lampedusa", lo indica
un appuntato dei carabinieri. Qualcuno dovrebbe però spiegare perché questa
volta lo scafista è rimasto a Lampedusa meno di 24 ore.
Prima di sera l'ufficio identificazioni scopre che le impronte di Bilal
corrispondono a quelle di un altro immigrato: Roman Ladu, nato a Bucarest il
29 dicembre 1970. È il nome che ho usato nel 2000 per entrare nel Cpt di via
Corelli a Milano, poi chiuso per le precarie condizioni di detenzione. Il
computer però non dice ai poliziotti che Roman Ladu è in realtà un
giornalista. E forse nemmeno che il giornalista, alias Roman Ladu, per
quell'inchiesta è stato denunciato e condannato a venti giorni di carcere.
Così Bilal, vero pregiudicato, può tenere duro. "Tu sei romeno e parli
italiano", insiste un ispettore in borghese. Un suo collega si avvicina e
chiede "Ce face?", come stai. E poi all'orecchio di Bilal sussura: "Pizda,
pizda, pizda, pizda, pizda...", un modo poco elegante usato in Romania e
altrove per chiamare i genitali femmili. Lo sguardo di Bilal resta fisso nel
vuoto. Ci riprovano con un'interprete marocchina che alla fine conclude:
"Non credo sia romeno. Parla l'arabo, però continua a chiedere che
l'interrogatorio sia in inglese".
Domenica 25 settembre
Bilal ha deciso di andare al gabinetto quando è notte. I gabinetti sono
un'esperienza indimenticabile. Il prefabbricato che li ospita è diviso in
due settori. In uno, otto docce con gli scarichi intasati, quaranta
lavandini. E otto turche di cui tre stracolme fino all'orlo di un impasto
cremoso: la sorgente dei due rigagnoli. L'altro settore ha cinque water, di
cui due senza sciacquone, cinque docce e otto lavandini. Dai rubinetti esce
acqua salata. Non ci sono porte, non c'è elettricità, non c'è privacy. Si fa
tutto davanti a tutti. Qualcuno si ripara come può con l'asciugamano. E non
c'è nemmeno carta igienica: bisogna usare le mani. Lì dentro è meglio
andarci di notte perché di giorno il livello dei liquami sul pavimento è più
alto dello spessore delle ciabatte e bisogna affondarci i piedi. Ma anche il
pediluvio nel lavandino prima di uscire diventa un problema: perché non
appena si sfila il piede, la ciabatta comincia a galleggiare e a navigare
con la corrente. Eppure il 15 settembre il leghista Mario Borghezio,
guidando una delegazione di europarlamentari, ha detto che il centro di
Lampedusa è un hotel a cinque stelle e che lui ci abiterebbe: quel giorno il
ministero dell'Interno gli aveva fatto trovare soltanto 11 reclusi e quella
settimana i trafficanti avevano deviato la rotta dei barconi fino in
Sicilia. Chissà, forse nell'appartamento di Borghezio è normale avere i
pavimenti coperti di liquami. Ma la maggior parte degli immigrati rinchiusi
qui dentro viene da case pulite in cui si entra addirittura a piedi nudi.
La colazione è un bicchiere di latte freddo, due cornetti e la bottiglia
d'acqua da dividere in due. All'ashara-ashara del mattino i carabinieri si
accorgono che mancano cinque persone. Ma parlando tra loro decidono di non
segnalarlo. Impossibile sapere chi sia scappato perché non si fa nessun
appello: i reclusi vengono solo contati. A metà della recinzione che separa
dall'aeroporto, proprio dietro uno dei pali con le telecamere a circuito
chiuso, il filo spinato è tagliato. E sul palo sono rimasti due lacci di
stoffa bianca, forse legati lì per facilitare la presa di chi si è
arrampicato fin sopra la rete. I carabinieri rifanno il conto un'altra volta
e rimettono tutti a sedere sotto il sole. Si resta così ore perché c'è
un'altra chiamata. Fanno partire tutti gli eritrei e gli etiopi sbarcati
lunedì 19. Tra loro, un'intera famiglia di fratelli e cugini, gli Abraham.
Sono scappati dall'Eritrea per non essere mandati al fronte, vogliono
continuare a studiare in Europa. Uno di loro, Youssef, è una promessa
dell'atletica: ha continuato ad allenarsi anche nel centro, ogni mattina
alle sei. Ci sono molti minorenni, rinchiusi da una settimana insieme agli
adulti. Un carabiniere là davanti mostra loro un grosso telefonino e
qualcuno si copre gli occhi con le mani. Ma non si capisce perché. Ahmed
Ibrahim ha da giorni un'infezione intestinale. Chiede di andare alla
toilette e dopo qualche minuto i carabinieri gli danno il permesso di
alzarsi. Al gabinetto ci resta un bel po'. "Ma è tornato quello che è andato
in bagno?", domanda uno dei militari. "E no che non è tornato, adesso vado a
fare un giro". Altri chiedono di andare in bagno, ma i carabinieri non danno
più il permesso. Dopo quasi mezz'ora Ahmed Ibrahim riappare, sudato e
sfinito. "Tu", gli urla il carabiniere che mostrava il telefonino, "tu sei
un cornuto". Ahmed lo guarda spaventato. "Sei un cornuto. Vai a sederti e
non ti alzare più". I colleghi ridono. Alla fine partono in 150, forse per
il centro di Caltanissetta. Ci si rialza e ci si risiede subito dopo per l'ashara-ashara
del pranzo. Bilal ora è in terza fila. Un'altra lunga attesa, seduti e
rannicchiati. Si avvicina il carabiniere con il grosso telefonino. È il meno
robusto tra i suoi colleghi. Ha capelli neri curati, un neo ben visibile
sulla guancia destra, un bracciale argentato e uno di cuoio con medagliette
dorate al polso destro, e un orologio con cinturino in pelle al polso
sinistro. Dopo aver fatto sentire un po' di musica tecno, schiaccia un altro
tasto e il telefonino comincia ad ansimare. Lui si china, mostra lo schermo
ai minorenni seduti accanto a Bilal. Sono immagini di un film porno
scaricate forse da Internet. Il carabiniere si rialza e sorride: "E dopo,
shampoo", annuncia ai minorenni mimando il gesto della masturbazione. I
ragazzini ridono. Poi si china di nuovo sulla prima fila, la percorre e
pretende che tutti guardino. Un trentenne si copre gli occhi con le mani. È
uno dei ragazzi che ieri sera ha guidato la preghiera sul
marciapiede-moschea. È un musulmano praticante e non vuole guardare. Il
carabiniere con il neo gli strappa le mani dagli occhi: "E guarda che così
impari", dice piazzandogli lo schermo davanti al naso. Il trentenne si
volta, guarda Bilal con gli occhi lucidi. Un carabiniere alle loro spalle
scherza con il collega: "Ma lascia perdere che quello è frocio".
Arriva il comandante, un appuntato che nel tempo libero gira con bandana,
camicione e pantaloni fino al polpaccio. E il tormento non è finito.
L'appuntato vuole farsi fare una foto davanti ai reclusi. Lui grida "Italia"
e tutti devono alzare il pollice destro e rispondere "Uno". "Forza", dice un
altro carabiniere, "chi non risponde 'uno' non mangia". Bilal non risponde e
non alza nemmeno il braccio. Il carabiniere lo vede. Bilal lo fissa negli
occhi e quello lascia perdere.
Poco dopo la polizia rivuole Bilal in ufficio. Ma non è per un
interrogatorio. Due ispettori, sempre gentili e rispettosi, gli fanno
indossare il giubbotto di salvataggio che hanno sequestrato la notte dello
sbarco. Vogliono semplicemente fare una foto ricordo con lui. Uno si mette a
destra, l'altro a sinistra: "Bilal smile, sorridi". Da quello scatto nessuno
si occuperà più dell'identità dello strano immigrato curdo. Passa un'altra
giornata. Su uno spiazzo di sassi appuntiti si gioca a calcio. Non ci sono
scarpe per tutti. Così metà giocatori calza la destra, l'altra metà la
sinistra e i due portieri restano a piedi nudi. Poco prima di cena cala il
silenzio, all'improvviso. Un pullmino e un'ambulanza scaricano 21 immigrati
neri. Sono sfiniti, affamati, seccati dal sale e bruciati dal sole. Passano
davanti al cancello e agli sguardi fissi sulla loro sofferenza. Vengono
fotografati, registrati, spogliati e perquisiti. Ricevono un tè caldo, un
cornetto, un asciugamano e chi ha i vestiti logori, anche una tuta. Non si
reggono in piedi. Ma dopo mezz'ora il cancello si apre e a gruppi di sei
vengono spinti nella gabbia. Non sanno dove andare, barcollano. Due sono
senza scarpe e quando vedono le condizioni del gabinetto tornano indietro a
chiederne un paio. Cherriere, un arabo- francese sospettato di essere uno
dei più famosi scafisti del Mediterraneo, impone ai carabinieri che gli
ultimi arrivati siano serviti prima di tutti. Cherriere è il vero mediatore
culturale: carabinieri e polizia lo chiamano spesso per farsi aiutare con
l'arabo o per smussare le tensioni. Il medico ha mandato nella gabbia anche
un uomo malato di scabbia. Non riesce nemmeno a sedersi per le piaghe, ma i
militari insistono perché si metta come gli altri. L'ultimo entrato deve
avere un colpo di sole perché continua a ciondolare. I carabinieri lo fanno
andare avanti e indietro tre volte. "Quanto ha bevuto questo?", ride un
militare. Bilal e Cherriere ottengono che anche lui sia messo in prima fila
con i compagni di viaggio. Poi un carabiniere parla di Bilal convinto di non
essere capito: "A questo qua dobbiamo insegnargli a farsi i cazzi suoi". Ma
per le scarpe non c'è niente da fare. "Le scarpe le abbiamo date a tutti,
dite a quei due che non scassino la minchia", gracchia il caposervizio della
Misericordia, un uomo con i capelli bianchi, molto diverso da Angelo, Andrea
o il cuoco, i ragazzi sempre disponibili anche se lavorano sodo tutto il
giorno. E i due restano a piedi nudi. Dopo cena gli ultimi arrivati guardano
la rotta tra la Libia e Lampedusa dipinta sul prefabbricato all'ingresso:
"Abbiamo perso l'orientamento e siamo rimasti in mare sette giorni. Mia
moglie diceva: we gonna die, moriremo. Ma io le dicevo: no, Dio ci porterà
in Europa". Sono quasi tutti cristiani. Prima di andare a dormire intonano
un gospel di ringraziamento al buio di una camerata. Impossibile trattenere
le lacrime.
Lunedì 26 settembre
Bilal finalmente ha trovato una branda su cui dormire. Stesso materasso di
gommapiuma e stessa coperta usata da chissà quante persone, in una stanza
con gli scafisti egiziani e alcuni loro passeggeri. Ma la notte finisce
presto. La sveglia è un lamento. Si alzano in molti e vanno a cercare chi
sta male. Forse viene dalla prima camerata. Ma avvicinandosi il lamento
prende la forma di una canzone stonata: "Ma quanto tempo e ancora, ti fai
sentire dentro, quanto tempo e ancora.". Viene da oltre il cancello: i
carabinieri giocano al karaoke con il computer portatile della polizia. Sono
le quattro e mezzo del mattino, è lo stesso turno che ieri mattina ha
mostrato le scene porno sul telefonino. C'è anche il loro appuntato. Sono di
spalle e non si accorgono. Si torna a letto. Ma non si riesce più a dormire
perché un'Airbus della Windjet continua a girare a bassa quota sopra
Lampedusa. La torre di controllo ha le luci spente e i piloti aspettano che
qualcuno si svegli per farli atterrare.
Subito dopo la colazione Bilal deve risolvere un problema serio: far sapere
ai familiari e alla redazione che è rinchiuso nel centro. Al quarto giorno
di silenzio, qualcuno potrebbe preoccuparsi. La possibilità di contattare la
famiglia è al secondo posto tra i diritti degli immigrati secondo l'avviso
che la Prefettura di Agrigento ha fatto appendere nelle camerate e nei
bagni. Ma ogni volta che Bilal e gli altri hanno chiesto di ricevere o di
comprare una scheda telefonica, il caposervizio della Misericordia ha
risposto: "Non io, direttore". Oppure: "Bukara, domani". Oppure: "Non
scassare la minchia". Sarà per questo che alcuni scafisti, chiusi da
settimane nella gabbia, fanno affari d'oro vendendo a 20 euro schede da 3.
Ma visto che nessuno può uscire, chi le passa dentro il cancello? Bilal deve
assolutamente telefonare e ogni sistema di aprire la linea con un fil di
ferro non funziona. Idea: il 118 risponde gratis. "Ho bisogno di aiuto, sono
chiuso in un centro per immigrati e non ci fanno telefonare", dice Bilal in
francese, "Devo avvertire la famiglia, per favore, vi do un numero di
telefono italiano, chiamate e dite che Bilal è vivo. Vi costa meno di un
euro". Non è uno scherzo: centinaia di papà e figli qui dentro hanno la
stessa grave necessità. Ma nessuno è disposto a fare questo favore. Bilal
riprova facendo a caso un po' di numeri verdi. All'800-400-400 risponde lo
sportello di Madre segreta della Provincia di Milano. È una giunta di
centro-sinistra: magari sono più sensibili ai diritti di un immigrato.
Invece dopo mezz'ora di insistenze in inglese, la ragazza al telefono si
inventa perfino una legge: "Non posso, la legge sul terrorismo mi vieta di
fare questa telefonata". A nessuno interessano le angosce di questi
immigrati chiusi in gabbia.
La sera, dopo cena, si prepara un'altra notte d'inferno. A Lampedusa sta
arrivando una barca alla deriva con quasi 350 stranieri. I poliziotti
dell'ufficio identificazione e i dipendenti della Misericordia tornano al
lavoro. Anche i carabinieri della Brigata Mobile sono pronti per le
perquisizioni. Ma stasera è di turno una squadra di persone per bene. La
comanda un brigadiere che dà gli ordini con accento napoletano. È un uomo
con i capelli grigi e un po' di calvizie. In tutta la settimana nessuno dei
suoi ragazzi è mai stato sentito gridare o insultare un immigrato. E quando
arrivano stremati i primi passeggeri della barca, loro si fanno capire a
gesti, senza urlare.
Martedì 27 settembre
È una giornata umida. Molti hanno la pelle della fronte e delle mani piena
di punture. Le più grandi sono zanzare, le più piccole forse pulci. Bilal
ogni volta che cerca di attraversare indenne la toilette pensa alla casa di
Borghezio. È una giornata di attesa. I trasferimenti annunciati ieri sono
rinviati perché la polizia deve prima identificare gli ultimi arrivati. È
l'unico giorno in cui vengono pulite le camere. Uno dei dipendenti della
Misericordia usa la stessa scopa con cui ha inutilmente rimosso i liquami
dai bagni. Hanno mandato anche un autospurghi. Ma le schifezze invece di
essere aspirate sono state sparate tutt'intorno alle turche. Anche nel
mangiare c'è qualcosa che non quadra. Sabato sera e poi ancora altre volte
la piccola cotoletta non era fatta di carne ma di pan grattato, farina e
forse uovo. Tanto che era possibile tagliarla con un cucchiaino di plastica.
Se è così vuol dire che a Lampedusa qualcuno spaccia pan grattato per carne.
Bilal e gli altri vengono privati non solo della libertà ma anche delle
proteine.
Mercoledì 28 settembre
L'ashara-ashara di mezzogiorno è una parata fascista. Sono quelli dello
stesso turno che sabato ha fatto sedere Bilal nei liquami. Nella gabbia ci
sono ormai 600 immigrati. Sono tutti seduti ad aspettare il pranzo. Un
carabiniere si affaccia a una porta e imita il Duce. Un brigadiere, che a
Mussolini un po' ci assomiglia, mette le mani ai fianchi e molleggia sulle
ginocchia. Poi saluta i colleghi con il braccio destro teso. "No", lo
corregge un carabiniere, "quello è il saluto nazista. Quello fascista è
così. Italiani!... La prossima volta a questi ci insegniamo Faccetta nera?".
Il brigadiere è uno dei più rispettosi con gli immigrati della gabbia. Ieri
pomeriggio Bilal l'ha visto portare un malato in braccio, dall'infermeria
alla sua branda. Ma di notte questi ragazzi dimostrano di che pasta sono
fatti. I reclusi sono a dormire. Bilal è nascosto dietro una rete. Ascolta e
osserva. Un'altra notte durissima. I poliziotti hanno lavorato fino a tardi
per gli ultimi interrogatori sullo sbarco di lunedì. E adesso ci sono 180
nuovi arrivi da registrare, perquisire e sistemare. Seduti su un muretto,
due gemelline di due anni, la mamma e il papà. I carabinieri con mascherina
e guanti in lattice cominciano subito a controllare tasche e borse. Li aiuta
un collega in borghese, forse fuori servizio, basette curate, capelli neri
con il gel e una maglietta con alcune scritte sul petto. "Spogliati nudo",
dice a un ragazzo in canottiera che sta tremando per il freddo e la paura.
Lui non capisce. Resta immobile un minuto intero. "What is the problem?",
urla il carabiniere e gli tira uno schiaffo sulla testa. L'immigrato,
pallido e magro come uno scheletro, trema. Altro schiaffo. Tutte le persone
in quel momento nude davanti ai carabinieri vengono prese a schiaffi. Da
mezz'ora quei ragazzi parlavano di fare il corridoio e nel gergo militare
non è un ambiente che unisce due locali. Cosa sia lo dimostrano subito dopo:
una fila di sei stranieri da portare nella gabbia passa in mezzo a loro e
ciascuno si prende la sua razione di schiaffi. Quattro carabinieri fanno
quattro schiaffi a testa. Appare finalmente il brigadiere che a mezzogiorno
imitava Mussolini. Ma non rimprovera nessuno. "Questo ti dà problemi?",
chiede al collega in borghese. E spara un pugno sullo sterno all'immigrato
magro, che non capisce proprio che cosa ha sbagliato ed è ancora in piedi
immobile, in canottiera. Passa un'altra fila di immigrati, altro corridoio.
Questa volta li accompagna un dipendente in divisa della Misericordia. Uno
con il pizzetto e una piccola cicatrice vicino al naso, che una sera quando
un ragazzo ha chiamato i musulmani alla preghiera, si è messo ad abbaiare
ogni volta che sentiva dire Allahu akbar. Forse li farà smettere. Invece no,
guarda e ride. Davanti alla fila si sistema il brigadiere. Fa il passo
dell'oca e finge di portare una lancia: "Avanti marsh". Soltanto un
carabiniere napoletano non partecipa al gioco. Gli schiaffi risuonano
nell'aria per mezz'ora. E finalmente una funzionaria di polizia se ne
accorge. È una ragazza bionda, non tanto alta, che di giorno raccoglie i
capelli dentro un bandana. "Maresciallo", dice nervosa, "vada di là a vedere
cosa stanno facendo i suoi ragazzi perché sento troppe mani che si muovono".
Il maresciallo volta l'angolo e raggiunge gli altri carabinieri: "Uhe
ragazzi, mi raccomando", dice loro e si mettono a ridere tutti insieme. Gli
ultimi sei immigrati vengono portati dentro la gabbia a notte fonda, vanno a
dormire sull'asfalto perché non ci sono più brande. E i carabinieri
festeggiano con una grigliata nel cortile.
Giovedì 29 settembre
Bilal passa tutta la giornata a convincere un gruppo di ferventi musulmani
che non può assolutamente seguirli a pregare. Alle sei di sera, prima dell'ashara-ashara
della cena, una voce femminile gli cambia l'umore. "El Habib Ibrahim Bilal.
Domani mattina alle otto presentati al cancello perché verrai trasferito",
dice l'interprete marocchina in arabo. "Quale destinazione?". "Agrigento". "Bilal
va via", dice Cherriere. E davanti a Bilal si forma una coda di prigionieri
della gabbia che vogliono salutarlo. Rachid, 31 anni, marocchino, sbarcato
ieri sera, gli spiega come funziona: "Ti danno un foglio di via. Tu per
cinque giorni lo tieni e ti sposti fin dove devi arrivare. Poi lo butti. Io
farò così, a Padova da mio cugino ho già un lavoro che mi aspetta. Modi
diversi di entrare in Italia non ce ne sono". La sera sbarcano altri 350
immigrati. Ma è il turno del brigadiere per bene e nessuno viene picchiato.
Appena entra nella gabbia John, 27 anni, partito dal Togo e altri suoi
compagni di viaggio chiedono dove si può mangiare. Ma la Misericordia fa
sapere che il primo pasto sarà distribuito solo l'indomani mattina. "We are
starving, non mangiamo da sette giorni", trema John, "Quando siamo sbarcati
ho visto un negozio e volevo comprare qualcosa ma la polizia ci ha detto che
non potevamo e che qui dentro avremmo mangiato. Abbiamo i nostri soldi. Se
siamo liberi, perché non possiamo comprare da mangiare?". Bilal vede passare
il medico, lo chiama e gli spiega la situazione. "Porto qualche brioche",
dice il medico. Invece va via e non porta nulla. John e gli altri vanno a
dormire su un marciapiede perché sono finiti anche i materassini. Un
funzionario in borghese rovescia una lattina di Coca Cola addosso agli
immigrati attraverso le sbarre. "Perché questo?", grida Teemer, 26 anni,
palestinese, "Siamo clandestini, ma non siamo animali". Il funzionario si
scusa. Le camerate sono strapiene di gente fin sotto i letti. La radio a
tutto volume in cucina canta ciò che centinaia di bimbi forse pensano ogni
giorno dei loro papà rinchiusi qui dentro: 'How I wish, how I wish you were
here', come vorrei tu fossi qui. Si va a dormire in una scena da fine del
mondo.
Venerdì 30 settembre
Quando torna dalla sua doccia notturna, Bilal trova il letto occupato da
altre due persone. Sono le ultime ore nella gabbia, può anche rimanere
alzato. Il cielo è illuminato da lampi e fulmini. Il temporale dura poco ma
gli scrosci d'acqua risvegliano le centinaia di persone che si erano
addormentate all'aperto. Davanti al cancello stanno registrando un nuovo
sbarco. E i carabinieri stanno di nuovo picchiando i ragazzi che
perquisiscono. I primi sono due uomini che non si erano seduti al loro
ordine. Uno lo chiamano Maradona. Volano sberle e per Maradona anche un
calcio. Si fermano solo quando passa il tenente in borghese, un ragazzo con
il pizzetto. Poi prendono a schiaffi un ventenne che non capisce che cosa
deve fare. E altri due ragazzi che al 'sit-down' non si sono seduti perché
parlano arabo e francese. Bisogna fermare questo schifo. Bilal grida in
inglese: "State picchiando la gente, perché?". Un carabiniere tira un calcio
alla rete da dove sta osservando, cercando di colpirlo. Bilal viene chiamato
fuori dal cancello. È un faccia a faccia tesissimo, gli occhi di Bilal
dentro gli occhi di un carabiniere con i capelli un po' brizzolati e la
mascherina per nascondersi. Ma almeno smettono di picchiare. Quando il sole
è alto dentro la gabbia sono state ammassate 1250 persone. "Questo è 'o
Professore", dice di Bilal un carabiniere a due colleghi, "Avete visto cosa
ha fatto prima? Questo qua un giorno lo chiamiamo fuori e gli diamo una
ripassata". Ma cinque minuti dopo è la polizia a chiamarlo fuori. Bilal
viene portato vicino all'uscita, dove lo aspetta il gruppo che sta per
essere trasferito. Nove adulti e 35 minori. La Misericordia distribuisce una
maglietta bianca a tutti e le scarpe ai tre rimasti senza. Ma non
restituisce i soldi che i ragazzini avevano depositato in segreteria. I
carabinieri li hanno accompagnati all'uscita senza dire loro che sarebbero
stati trasferiti da Lampedusa. "Oggi non è giornata, non c'è nessuno in
ufficio che possa dare quei soldi", spiega un giovane della Misericordia.
Bilal insiste in inglese: "Sono centinaia di euro, è importante che partano
con i soldi". Un carabiniere dice di no con il dito e allarga le mani.
Si parte senza soldi. All'imbarco del traghetto gli ultimi turisti della
stagione guardano la fila di immigrati sotto scorta dai carabinieri.
Ciascuno ha un sacchetto con due panini e una bottiglia d'acqua. Si viaggia
fino a sera nella sala soggiorno della nave, piantonata da un brigadiere e
due carabinieri molto cortesi. Youssef, 16 anni, è sicuro sia una
deportazione in Libia e si mette a pregare verso prua, convinto che la rotta
sia verso Sud-Est. Ma quando sull'orizzonte appaiono le montagne della
Sicilia, tutti gli altri si incollano al finestrino e ridono: "Jebel
Scisciglia". A Porto Empedocle i 45 sono caricati su un'autobus della ditta
Cuffaro scortato dalla polizia. La carovana sale fino alla questura di
Agrigento. Bilal e gli altri 8 adulti vengono separati dai minorenni. I
teenager sono destinati a un istituto in attesa di essere affidati ai
parenti già in Italia. Gli altri ricevono tre fogli, un sacchetto con due
panini e una bottiglia d'acqua. Poi vengono caricati su un furgone che parte
a tutta velocità. "Bilal, ho paura. Secondo me ci portano in Libia", dice
Abdrazak, 18 anni marocchino, che vuole raggiungere lo zio a Catania. Invece
si finisce alla stazione. Ma il treno per Palermo è già partito: "Minchia,
non parte mai in orario", s'arrabbia un ispettore. Nuova corsa in auto,
furgone e sirena fino ad Aragona, la stazione successiva. E questa volta il
treno non è ancora arrivato. "Ragazzi ascoltatemi", spiega un funzionario in
inglese, "Avete cinque giorni di tempo per lasciare l'Italia. Siete liberi".
Anche Bilal è libero, nonostante il suo alter ego romeno e i precedenti
penali. Gli altri quando capiscono, esultano. Uno si attacca al collo
dell'ispettore che sorride, ma preferisce non essere baciato. Tutti, tranne
uno, hanno un lavoro o un parente che li aspetta: a Milano, a Torino, a
Napoli e Catania. L'ultimo ostacolo è un bigliettaio, la mattina dopo alla
stazione di Palermo. È convinto che abbia davanti immigrati che non parlano
italiano e li insulta. Maltratta anche un pendolare che si è offerto di
aiutarli: "Lei che c'entra, crede che non li capisca?". Bilal esplode: "Ma
se nun capisti mancu l'italiano, lo fate o no 'sta minchia di biglietto?".
Il bigliettaio sorpreso si mette subito al lavoro. "Che lingua era Bilal?",
chiede Abdrazak in francese, "era curdo?". n
O'Scia'
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