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O'Scia' 2004

Lampedusa
Arrivi su di uno scoglio brullo e ti chiedi già tante cose. Ci arrivi dal cielo, ma è come se emergessi dai fondali degli abissi marini, tanto quest'isola è tutt'uno con un'altra vita. Quella del mare. Ti chiedi chi ha posto lì quello scoglio. Ti chiedi perchè proprio lì e non altrove. E poi ancora fai fatica a renderti conto, planando in silenzio dal cielo, che occhi tristi e macilenti recintati dal filo spinato, poco in là dalla pista, stanno guardando proprio te. Per alcuni interminabili istanti, mentre stai per poggiare il piede al suolo, vorresti già scappar via, vigliacco e misero, da quel posto. E confronti una vacanza con il sogno di una vita, con quello di dare un futuro ai propri figli se non anche a sè stessi. E ripensi "se questo è un uomo", terribile riproposizione moderna di un recinto fatto di polvere e sabbia che cinge gli sguardi sulla libertà.
Esci fuori dal minuscolo aeroporto-gazebo e sei già in Africa. Trabiccoli di provenienza orientale che chiamano "motori", scalcagnate ma sempre resistenti mehari da piccoli deserti fai-da-te, ruggenti quad montati da finti Bud Spencer di città che han lasciato le cravatte sui grigi stenditoi della pianura nebbiosa. Tutti piazzati in fila, pazientemente, per le viuzze dove il cartello stradale, quello della scuola guida con le macchinine piccole rosse e blu, è un miraggio da conquistarsi con la fantasia e con la prudenza. "Suona o sbatti" è scritto sul muricciolo di un trivio oltre il quale non puoi nemmeno udire una voce umana o il dolce tramestio delle ciabatte insabbiate. Qualcuno, saggio e avveduto, ha voluto evitare, con la vernice bianca, di rimpinguare le lettighe di una casamatta che chiamano "poliambulatorio" o forse, era solo il proprietario del muro, già pesto di testate senza caschi. Già, il casco. Riposto, quasi serrato a forza sotto i sellini dei "motori" e nei tiretti delle case. Nessuno o quasi osa indossarlo sui capelli crespi di vento e sabbia. E quando ti fanno notare che qui puoi fare ciò che vuoi, pensi: "chissà che macello". Nulla di più falso. A Lampedusa il disordine è solo apparente e non è mai anarchia. E' rispetto per gli altri, per la natura, cosi selvaggia e dormiente da apparire finta, chiusa sotto una teca da documentario. Ciascuno lo capisce venendo qui. A questo pensi notando che i cestini gettacarte sono assenti, ma la pulizia regna comunque incontrastata. Ordinate buste tutte provenienti da quei pochi supermercati, sotto i portoncini in legno delle basse case tutte vestite di giallo e rosa, fanno bella posta al cielo che albeggia azzurrino e dopo un pò spariscono inghiottiti nel nulla. Come le lavatrici, i vecchi assi da stiro, cerchioni di autocarri e parafanghi, televisori bucherellati, tutti nella discarica del deserto, a nord, la discarica piu pulita e profumata della terra.
Una bella ragazza dai capelli lunghi e lisci poggia le sue scarpe sul davanzale della finestra e pensi a quanta sabbia e pietrine dure tra le dita hanno ingoiato quei sandaletti minuti sul piedino di fata. Anche in paese è arduo camminare. I marciapiedi sono tutti tra loro disomogenei, non livellati in altezza e non di rado devi saltare o salire e scendere rampette di scale scalcinate per muoverti come un alfiere di sbieco sulla scacchiera ortogonale in cui le strade si intrecciano. Meglio camminare al centro della strada o saltare in groppo al cavallo, il "motore" che ti rende il re del luogo. Con quello vai ovunque, attraversi divieti, parcheggi dove c'è spazio per un refolo di vento, e volteggi sulla falce di roccia e sabbia poggiata sul mare, e ti godi la tua giostra del saraceno come un cavaliere senza altra arma che il cuore. E poi ti sporgi sui costoni di roccia aperti sul vuoto. E sul mare.
Il mare qui sembra una persona. Ti parla dai suoi occhi verdi smeraldo della baia dei Conigli, ti sussurra dai suoi gorghi piccoli e schiumosi che scorgi da Capo Grecale, ti urla sbattendo sulle rocce tagliate come fette di torta multistrato sotto i tuoi piedi a Capo Ponente e ti accompagna nei mille sapori di mare anche quando non sono di mare nei ristorantini-palafitte sulla sabbia della Guitgia.
Ma ti parla anche la gente, dal volto tagliente come un diamante raro. Facce scavate dall'arsura che trova il suo prototipo nel vecchio che staziona in tutti i bar di via Roma come sui moli del porto vecchio, e pensi ad Hemingway ed il suo vecchio e il mare oppure, prosaico a Capitan Findus. Un gruppo di anziani isolani parla al bar in un mattino di pioggia lanciando impropèri alle auto che sollevano fango dalle pozzanghere nelle vie solcate come una antica strada romana dai carri a cavalli. C'è anche un ischitano trapiantato lì da anni. Lo tradisce l'inconfondibile accento campano. Da un'isola all'altra. E mentre aspetti che spiova mandi giù a carambolare nello stomaco zucchero, ricotta e cioccolato.
L'isola è rossa di deserto. Ma è di un rossiccio lieve, quasi giallino ocra. C'è sabbia finissima ovunque che ti si poggia sulla pelle e non ti lascia più, anche viene giù con la pioggia sottile e rapida infilandosi tra lampi di luce improvvisi e tra i raggi del sole caldo. E ti crea addosso un'invisibile colla di salsedine. E' come un marchio cui sei legato, per tutto il tempo in cui sei lì, e forse, se avrai saputo cogliere qualchè attimo di eternità, per sempre. Sei su di un avamposto di un qualcosa di indefinibile, su una frontiera, su un labile confine. Tutto a ricordare che il tempo e lo spazio esistono anche qui, non sono invenzioni di un dio che ha poggiato questo scoglio sull'acqua e lo ha lasciato ai suoi uomini. Lampedusa sembra essere di tutti e di nessuno, non si percepisce l'appartenenza della terra all'uomo, ma quella di ciascun uomo che abbia la fortuna di approdarvi un giorno, a questa terra. Non si sente nell'aria e nei volti non si vede, il recinto del possesso. E cancelli spalancati sul vento, giardinetti di piante grasse aperti sul cielo, barche cadenti sospese sulle acque lievi e silenziose. Carcasse di barche e case-carcasse lungo le vie polverose sembrano ricordarti che un tempo l'uomo e il mare erano una cosa sola. E con essi il cielo e le nubi.
Cala Creta è una insenatura naturale con rocce a picco sul mare. Sugli spalti dell'anfiteatro si affacciano, a cornice, deliziose ville scavate nella pietra arsa e dura. Non si comprende bene in che modo l'uomo sia riuscito a ricavare dei luoghi abitabili in tanta durezza. Come far sorgere pietra su pietra i "dammusi" dalla terra, le tipiche abitazioni, forse un po turistiche ma sempre suggestive. Ma la natura si lascia addomesticare facilmente quando teatri di bellezza come questi vengono rispettati e scolpiti per tirarne fuori il fascino celato e misterioso. Le rocce assumono colori ora scurissimi, in prossimità delle acque che le lambiscono, schiaffeggiandole morbidamente, ora a zaffate improvvise giallo-paglierino, man mano che si sale verso i cespugli verdi che qua è la rompono l'asperità. Sfondo naturale, baluardo estremo e pacifico adagiato su di uno sperone roccioso col muso di cane addormentato, sta il faro bianco che attira lo sguardo a levante, la dove in ogni tempo è sorto puntuale il sole. Imbarcazioni di turisti rompono con discrezione la placida monotonia dello specchio d'acqua antistante la terrazza bassa affacciata come un palco d'onore sulla baia. Circoli d'acque di diversa tonalità d'azzurro-verde in cui i bagnanti si sospendono incuranti della frescura dell'acqua. Ma il calore che immagini come queste donano all'animo coperto di fuliggine cittadina è un qualcosa che ciascuno porterà a casa, senza timore d'aver navigato in un sogno, così bello perchè lieve, così autentico perchè piu caldo del fresco mare settembrino.
Viaggiando verso est, la strada per lunghi tratti è lastricata da squadrate pietre rettangolari in tinta con la terra polverosa, l'asfalto è bandito. Si percepisce da subito che non si incontreranno altri centri abitati. Non negozi, nè segnali stradali o insegne di sorta che potrebbero far rassomigliare il luogo ad un improbabile scorcio di deserto dell'Arizona, ma solo il rumore della natura che silenziosa e incurante fa il suo corso. E vien quasi voglia di spegnere il motore per godere pienamente di quel silenzio, e starsene lì, sul ciglio della strada a spiare la forma di piante mai viste prima, a sagome di pietroni tra i cui anfratti crescono minuscole alcune di quelle pianticelle. Strappandone un virgulto cerchi di sondare il mistero che le fa crescere e ti resta appiccicato alle dita un denso liquido lattiginoso. E' il magazzino della vita, è "da lì che prende la vita" quella piccola piantina che vive su un sasso gettato sul mare. Sotto, uno strato di terriccio cosi sottile da far pensare che anche le piante, come gli uomini, possono avere una vita cosi solitaria quanto fugace, e una folata di vento può spazzar via la forza che la natura ha dato loro. A volte non sappiamo qual è la nostra pietra, su chi siamo ancorati e quanto sia sottile lo strato di terra su cui levitano i nostri piedi. Le riflessioni suscitate da brandelli di natura apparentemente cosi insignificanti, possono condurre lontano, ma un gabbiano già fa udire la sua voce quando il sole del pomeriggio prova a scaldare spalle umane battute dal vento. E sullo sperone rocciso che, a picco sui flutti, guarda a levante, passano uno dopo l'altro questi affascinanti volatili marini e tutti ruotano intorno al contorno dello sperone a piccoli gruppetti nella medesima direzione. La luce del sole si fa più tenue ed il profilo di Linosa è ora più nitido all'orizzonte. Le sagome bianche dei gabbiani si confondono con gli spruzzi del mare scorti in lontananza, è più lontano corre lo sguardo, più è arduo distinguere le mobili macchioline bianche e non si sa siano gabbiani, gorghi d'acqua o balene. Si, perchè da queste parti dicono di avvistare anche le balene. Strani animali, come il falco dal becco adunco che sporge da un costone di roccia, proprio sotto al faro bianco. Un "naso di falco". A volte i gabbiani vi si avvicinano e paiono osservare il loro simile di pietra, incuriositi e timorosi. Strano animale anche l'aereo che a poche centinaia di metri si poggia al suolo. Ma che ci fa un aereo qui? Arriva all'improvviso, ma sempre discreto, qui anche gli aerei non fanno rumore. E' ora di andare, il faro bianco ottagonale che sormonta un anonimo edificio basso e largo, sorveglierà questa notte il mare e tutti gli strani animali. Un ultimo sguardo agli antri ricoperti da eriche a cespuglietti. Un ultimo pensiero. Sperare di tornare. Solo questo.
A Lampedusa non c'è niente. "E tutto sta in quel niente"


Un uomo e la sua isola
L'isola che non c'è. Non è solo un puntino dimenticato sulle mappe geografiche, nemmeno soltanto uno scoglio su cui approda la disperazione dei derelitti di un altro mondo lontano. E' anche l'isola di un uomo di nome Claudio. Qui capita di vederlo a suo agio come in nessun altro luogo. Forse proprio perchè Lampedusa è un non-luogo. Un posto che è qui ma è ovunque. Nei cuori di chi lo porta con sè, come sulla pelle scavata degli abitanti. Forse è anche cosi poco Sicilia, cosi poco Italia, da essere solo Lampedusa, continente minuscolo che già vive tutto di sè, fucina di un vulcano di odori, sapori, colori. Come l'acronimo di O' Scià, coniato da Claudio, in occasione del grande evento musicale di fine Settembre. Festa di popolo e non d'élite, proprio per questo dimenticata quasi (e meno male) dalle mediatiche superficialità, ma appunto perciò cosi speciale.
Il volo Roma-Lampedusa di domenica 19 Settembre tarda la partenza. Nel lungo corridoio dell'area partenze di Fiumicino, i passeggeri vanno e vengono sospinti da un "gate" all'altro. Tra uno snack ed un'occhiata ai turisti che aspettano impazienti di lasciare la metropoli, arriva l'ora dell'imbarco. Un ragazzone alto, tutto muscoli e sorrisi, si siede con il suo immancabile auricolare. Non è possibile che sia un caso. Dopo un pò tutti si sono imbarcati. Una hostess di terra, sorridente intona fra i denti "e andare lontano...". Si va lontano, tutti assieme. Un sorriso d'intesa, arriva Claudio. Con una mano regge sbilenco una sacca da viaggio nera, con l'altra dà un'ultima sbirciata al passaporto, i capelli sale e pepe sono arruffati, il volto stanco di chi ha dormito lo spazio di un battito di ciglia. Nel "finger" che ci separa dal portellone dell'apparecchio chiacchieriamo un pò, mi parla del concerto lampedusano, sorride ai complimenti per il raduno di Viterbo, c'è il tempo per una istantanea ricordo, saluta, mi augura buon viaggio. Ho fretta di entrare nell'aereo, quasi per esorcizzare l'emozione, ma lui mi richiama facendomi notare che ho perduto un giornaletto scivolatomi di mano: "Mitico Diabolik !" esclama con inconfondibile inflessione di borgata, raccolgo l'oggetto smarrito dalle sue mani e dal suo volto il suo sorriso. Si parte. Si arriva. Il tempo è meno inclemente di quanto non abbia detto la TV. Nel piccolo aeroporto dell'isola qualcuno scatta delle foto e saluta l'illustre ospite. Saluto Claudio e ci auguriamo un buon soggiorno.
Claudio sull'isola non è un personaggio, ma un uomo. Lo vedi anche da solo, una sera che cammina vicino al lungomare, e puoi salutarlo sfrecciando in motorino, lui gentile ti risponde, un pò divertito e un pò stupito, come quando qualcuno che non conosci e che credi di aver già visto in chissà quale posto ti sorprende e ti disarma.
Ed in un pomeriggio soleggiato ma ventoso, mentre sei seduto al bar a sorseggiare qualcosa, il cameriere Angelo (autentico personaggio lampedusano) si volta con noncuranza ed esclama: "ecco Bagghiòni". Eh si, perchè qui Claudio è per tutti "Bagghiòni" (rigorosamente da pronunciarsi con la O sicilianamente apertissima). Qualcun'altro lo appella più aulicamente "Il Maestro". Ti volti, lo vedi camminare sorridente, solare, di bianco vestito, occhiali da sole, guardarsi attorno quasi a cercare il contatto della gente, della sua gente, quella comune. Qualcuno timidamente gli si avvicina, in costume, e lui non si nega, si ferma con tutti. Ma dove sono i "Sandroni", i "Fabioni", gli ingabbiatori dell'animaletto da circo, del fenomeno sotto formalina? Qui sembrano quasi del tutto assenti, noncuranti, lontani dalla gente e dai concerti mega-galattici fatti di spintoni, urla, insulti, censure di flash ed emozioni. Qui siamo a Lampedusa. Un angolo di mondo, tra gente che rispetta ed ammira, tra gente che sa amare in silenzio. E in silenzio, osservare la scena, è la cosa più bella, ti godi distante, un sorriso, una stretta di mano, un abbraccio. E lui che monta sul primo scheletro di palco montato in poche ore sulla spiaggia della Guitgia. Si vede che non può starci lontano da quei rozzi tubolari che affondano nella sabbia, dalle tavole di assi scricchiolanti da calpestare solo con una voce o con una nota in Sol. Signore attempate in scoordinati parei da saldi di fine stagione si alzano scrollandosi di dosso la sabbia infida, e vanno a salutare l'uomo bianco. Per tutti c'è una parola, per molti una domanda che il non-personaggio fa alla gente. Ed ogni tanto specchia il suo volto e forse la sua anima nell'angolino di mare che lambisce il palco, gli occhiali da sole che salgono e scendono sulla fronte rugosa e sul "naso di falco". E poi sorrisi ampi e sinceri mentre la gente torna pian piano al proprio posto sotto gli ombrelloni a righe gialle e bianche e lascia che "Bagghiòni" torni a sè stesso. Dopo un'oretta ritorna anche sui suoi passi, risalendo il pendio tutto sabbia e sassolini dal quale era disceso lieve e si infila nella Mercedes nera tutta impolverata, non prima di un ultimo sguardo sullo scenario spiaggia-mare-palco, quello stesso scenario che si appresterà a raccogliere le emozioni di una tre giorni di musica e parole indimenticabili.
Tra i negozietti finto-chic di via Roma, sui banchi dei venditori di capperi, tra i maghrebini delle jeanserie di falso originale e i chioschetti del panino con la milza, e poi tra gli ambulanti di volatili e piante grasse d'ogni specie, non si parla d'altro. Si sente la gente che si chiama per le viuzze, "O' Scià" - "Cà semu", ed in mezzo ai discorsi, spunta sempre prima o poi Claudio, il Maestro Bagghiòni che a pochi giorni dall'evento già calamita l'attenzione degli stanchi isolani. Stanchi perchè la stagione estive è ormai al suo epilogo, ma felici per essere per una volta almeno, al centro di un piccolo mondo positivo, fatto non solo di sbarchi di gente d'oltremare e motovedette di guardie armate.
Il palco di "Cercando" cerca appunto il suo spazio, sovrastruttura necessaria al piccolo basamento da fiera di paese, e cresce sotto gli occhi incuriositi degli assetati di sole e mare che fanno lo slalom fra le folate di vento quanto mai dispettoso. I "guerrieri della luce", sagome nere con le braccia levate al cielo ancor prive del mondo argenteo che dovranno sostenere ogni sera, troneggiano accanto al pianoforte nerissimo che Donella lucida di tanto in tanto per preservarlo dalla salsedine acerba, ma anche sulle rocce scoscese retrostanti fin sotto il balconcino di legno su cui Angelo serve l'ennesimo arancino al burro.
Il primo giorno di prove Claudio arriva presto sul luogo dell'incanto. Camicia di jeans azzurra, al collo il laccetto azzurro ufficiale del concerto, introvabile se non sei dello staff (e nessuno si lascia impietosire) con la scritta "Artista". Lo vedi andare su e giù dal gazebo bianco posto accanto al palco verso l'albergo che guarda il mare. E da pochi metri sotto l'ombra di una palma con i piedi affondati nella sabbia mai bollente riesci a vedere il suo sorriso e nella mente quasi intravedere i pensieri che prendono forma. Ecco che per alcuni momenti riveste nuovamente i panni del personaggio, ma solo quando un'intervista, una telecamera, un taccuino gli sono davanti per portarlo nelle case di chi non c'è. Ed accanto a lui vedi pure Fabione e non può essere altrimenti. Torna di nuovo dalla spiaggia ed una ragazza abruzzese gli elenca tutti i concerti a cui ha assistito, lui strabuzza gli occhi ma subito mi osserva incuriosito, gli parlo timidamente della nostra "casetta dei sogni" e lui riceve i saluti di tutti, subito annuendo con un bel sorriso, come a voler dire: "vi conosco". Ed io sono certo che ci conosce, come noi conosciamo lui. Ricorda persino che abbiamo fatto il viaggio d'andata assieme e mi sembra cosi strano di starmene lì senza saper esattamente che dire, in quel contesto strano, in costume e i piedi sporchi di sabbia umida. Mi pare di essere lontano anni-luce da quando, sotto i tanti palchi che ho guardato con la stessa luce degli occhi e del cuore, una sottile ma impenetrabile barriera mi divideva dal personaggio. Adesso nulla mi divide dall'uomo e non potrebbe essere altrimenti. C'è il tempo per fargli un "in bocca al lupo" per la sua "prima" e lui quasi a schermirsi o forse, ammantato di quella proverbiale scaramanzia di ogni artista da palcoscenico, mi sorprende ancora dicendomi: "ma no, tanto sarà solo un concerto da spiaggia". Lo capirò soltanto alla fine che aveva ragione lui. Ancora una calda stretta tra le mani screpolate dal vento e torno in spiaggia ad ascoltare la musica che inizia, le prove, ma pare già un concerto. E godo di una personale fortuna: ascoltare la musica e le parole standomene placidamente nell'acqua, specchio di smeraldo. E guardare il padrone di casa che accoglieva uno dopo l'altro i suoi ospiti e per tutti un sorriso, una pacca sulle spalle, un battito di calcagno al ritmo delle loro note. Ancora bagnato di mare risalgo i pochi metri di rena che separano le creste d'acqua della Guitgia dal lato destro del palco e lo trovo affacciato ancora a fare due chiacchiere con la gente, tranquillamente, a dire: tutto bene lì in acqua, e di certo provare un briciolo d'invidia. Vorrebbe stare anche lui nel mare, per stare assieme a tutti quanti.
E come si fa a dimenticare lo sguardo pensieroso quando le nuvole già minacciano l'ultima serata, i gomiti poggiati sul piano, o mentre canta ed alza lo sguardo preoccupato al cielo e con un gesto eloquente sembra voler scacciare quei nembi nerastri. Ma neppure questo è riuscito a turbare ciò che alla fine è stato, sotto la luna piena a tre quarti di Lampedusa.
E poi ci sono gli aneddoti narrati dalla gente, quello di Claudio venditore alla sagra del pesce, oppure in uno dei suoi ultimi atti semi-pubblici, quegli stornelli romaneschi e le canzoni napoletane e siciliane eseguite per gli avventori del ristorante tunisino dell'isola.
Prima di andar via lo scorgo ancora, per caso, solo con la compagna ed una coppia di amici, attraverso il vetro di un ristorante. Sta lì, uomo tra tanti, in una torretta di vetro che guarda quella stessa spiaggia-palco che lo aveva visto, pochi metri piu in là, protagonista di sogni in musica. Il motorino si accende, sfreccia inghiottito dal buio. E' li che lo lascio definitivamente alla sua vita di uomo. Solo, ma cosi normale da sembrare un altro. Non ha con sè l'inseparabile chitarra, seconda pelle di un uomo che è venuto dal mare. E al mare torna. Come tanti. Come me.
 

O' Scià - Il concerto
 Più che un concerto, quello di Lampedusa è un vero happening, da spiaggia sì, ma di qualità. Tre serate che raccolgono alla piccola baia della Guitgia, tutti gli abitanti dell'isola ed alcuni fortunati inconsapevoli turisti che si godono l'ultimo sole estivo condito da musica e parole, ogni giorno, dalle 3 del pomeriggio sino a notte inoltrata. Sono pochi i fans propriamente detti dei vari artisti che si alternano sul palco montato a ridosso di un pendio, ha sul suo lato destro la battigia a pochi metri. Quindi chi immagina uno scenario di lattine di birra, buste di plastica e cartacce ad imbrattare la spiaggia si sbaglia. Mai visto un concerto cosi pulito. Mai visto un laboratorio musicale permanente praticamente sotto l'ombrellone. Qualche birra circola, ma la manda giù durante le faticosissime prove-fiume, il padrone di casa. Claudio Baglioni circola con un boccalone di birra gelata tra gli strumenti per controllare che tutto sia messo a punto. Lo fa sempre con discrezione e col sorriso sulle labbra. Manca la tesa maniacalità cui i suoi fans di sempre sono abituati a vederlo ai concerti di sempre e si capisce sin da subito che sarà un evento diverso dal solito.
Con quella stessa discrezione, "l'uomo della storia accanto", senza far pesare a nessuno i suoi 35 anni di storia nella musica italiana, fa gli onori di casa ai suoi colleghi che si alternano sul palco. E circola al bar fra i bagnanti divenendo quasi, "l'uomo della sdraio accanto".
E' sempre difficile mettere assieme nomi di un certo calibro nel panorama musicale popolare, specie nel nostro paese. Rivalità e scarsità di spazi deputati alla fruizione musicale fanno paura a tutti specie in un momento di crisi discografica che sembra irreversibile. Lo sottolineeranno in molti tra i convenuti alla corte dell'VIII re di Roma, ma da ora in avanti primo cittadino "ad honorem" di Lampedusa.
Baglioni ci riesce perchè crede fermamente in ciò che fa e non lesina telefonate altolocate ai potenti d'Italia per sensibilizzare l'attenzione delle assenti istituzioni sul problema-Lampedusa, un mix di cattiva gestione informativa e di scarsa sensibilità turistica.
La gente capta la straordinarietà dell'evento e si riversa in massa sulla spiaggia che per 3 giorni diventa l'unica piazza del paese.
Il palco è una struttura moderna ma semplice, che Baglioni ha portato con sè a illuminare tanti luoghi storici e siti dismessi durante la sua ultima fortunata tournèe. Anche la band, che Baglioni vuole con sè, ossatura principale del concertone, garantisce qualità e versatilità., ascoltare John Giblin (ex Simple Minds) pizzicare il basso mentre canta Max Pezzali può avvenire solo alla Guitgia, per O' Scià.
Magie e misteri di un'isola che cattura chi vi approda, purtroppo a volte in senso poco figurato.
C'è spazio sul palco di O' Scià, (il saluto tipico del luogo che Baglioni spiega in apertura con un improbabile accento siciliano tra l'ilarità bonaria di tutti), anche per intermezzi di intrattenimento comico. Lo spettacolo scivola via con grande ritmo, grazie anche a Pino Insegno che la prima serata conduce i siparietti comici coinvolgendo un Baglioni in splendido formato "Anima mia" e anche il pubblico. Più misurati i suoi interventi rispetto a quelli del raduno del popolo "baglionico" di Viterbo, ma sempre sferzanti. Si scherza sulla mania del gerundio a tutti i costi nelle ultime uscite del cantante di Questo piccolo grande amore (Crescendo, Cercando, Improvvisando) e Insegno già pronostica per l'anno venturo "O' Scialando". E proprio la canzone del secolo, quella della "maglietta fina", tanto vituperata, a volte storpiata ed eccessivamente osannata, che Insegno dissacra eseguendola in versione Hip-Hop, mentre l'autore con movenze da Eminem di periferia, saltella divertito.
Baglioni e la sua band danno il meglio di loro negli affiatati pezzi ritmici, dalla recente Sono io alla più datata Notti passando per Cuore d'aliante ed Ancora la pioggia cadrà, triste ma involontario presagio della serata finale.
Nei duetti con gli artisti ecco il Baglioni più ruspante, quello meno ingessato e forse più vero, e gli si perdona persino quando dimentica ampie strofe del suo cavallo di battaglia Strada Facendo, aiutato da Irene Grandi. La toscanaccia dagli occhi blu esibisce una capigliatura stile Madonna anni '80, e delle dalle potenzialità vocali sempre molto graffianti e veraci (splendido ed emozionante il duetto con Simona Bencini, ex vocalist dei Dirotta su Cuba, novella Pino Daniele sulle note di Se mi vuoi).
Ma altre voci colpiscono ancor più, come quella della bravissima Rosa Martirano che duetta con Baglioni con Quei due e con il celeberrimo pezzo di James Taylor You've Gotta Friend ed incanta addirittura con il siparietto di pezzi jazz, saltando musicalmente un gradino piu in alto.
Una ventata di napoletanità che non poteva mancare in un contesto tutto sole, mare e musica, è soffiata dal quartetto vocale dei Baraonna che rivisitano O' Sarracino e si cimentano anche in un pezzo di Baglioni, sempre quello presago di sventure metereologiche di cui sopra.
Il cielo è ballerino, nuvoloni vengono sospinti dal vento, mentre un altro cielo è cantato da Massimo Bubola, quello d'Irlanda, ma il cantante fa rimpiangere sia l'esecuzione del pezzo di Fiorella Mannoia (che l'anno prossimo ha assicurato già con la Consoli e Morandi la sua presenza a O' Scià) che, Fabrizio De Andrè (ma non ce n era bisogno) quando esegue con Baglioni la bellissima Andrea.
Il sodalizio artistico e di vita EnricoRuggeri- Andrea Mirò porta in scena guerre cessate ma mai dimenticate con Primavera a Sarajevo e di nuovo De Andrè è evocato come uno spirito benevolo per l'evento, grazie al bellissimo pezzo Un giudice.
E fra una battuta di Insegno (l'anno prossimo dopo O' Scià 1 e O' Scià 2, ci sarà O' Scia...quone) e una gag di Enzino Iacchetti che, durante la seconda serata non farà a meno di proporre un mini-concertino di canzoni bonsai, fa strano vedere Claudio Baglioni che, apparendo dal buio discretamente e divertito, quasi come un Hitchcock del palcoscenico, ora balla, ora suona il bongo, ora strimpella il contrabasso o si siede semplicemente al suo piano di sempre a sottolineare la coralità dell'evento.E quasi costringe Max Pezzali a cimentarsi con Io sono qui, e il ragazzo partorito da Cecchetto si cimenta e da bravo scolaretto di provincia (lo stesso modo con cui sta sul palco) ci prova, ma per l'estensione vocale è solo rimandato a settembre (il prossimo però!). Le ragazzine sognano con Come mai (in duetto con Baglioni) e con Gli anni. Ed agitano le braccia in preda ai primi scompensi ormonali per Nek il belloccio emiliano che esegue Laura non c'è con voce decisa ma accademica.
Piu bravo senz'altro Niccolò Fabi, volto rosso abbronzato dal sole della Guitgia e capelli al vento, non delude anzi si esalta nel vocalizzo finale di Volare che, nobile sigla finale che omaggia un'altro grande lampedusano d'adozione Domenico Modugno, chiude tutte le sere il concerto. Poco spazio per Nek e Fabi, sfortunati per essere stati invitati nella terza serata rovinata dalla pioggia, cosi come Luca Carboni che duetta con Baglioni in Mare Mare.
E Baglioni corre a duettare anche con Rosalino Cellamare, in arte Ron in Senza Catene (come a Bari durante il concerto Sono io del luglio 2003) e quasi lo stupisce imbastendo un attacco di chitarra non in scaletta e lo invita ad eseguire Una città per cantare.
Un vero trascinatore invece è Luca Barbarossa, l'eterno ragazzo che fa sognare le mamme (ora forse già divenute nonne). Animale da palcoscenico è un pò il vice di Baglioni, si cala nella parte perfettamente e si candida a diventare il prossimo organizzatore di O' Scià quando Baglioni lascerà (tra cent'anni si intende). I due romani sono la coppia piu affiatata e divertita sul palcoscenico e nel classico Roma spogliata c'è Baglioni al contrabbasso. E Barbarossa è onorato di esserci e tesse le lodi della band di Claudio ("il più scarso tra questi è un autentico genio") e dei fondali dell'isola, da esplorare con maschera e boccale.
Momenti di autentica suggestione regala il bravissimo Eugenio Finardi che, chitarra e voce ripercorre la sua carriera e culla i sogni alla luce della luna, Patrizia e Piccola Fragola spiccano per il perfetto connubio poetico di musica e parole mentre ancora una volta il mattatore Baglioni fa da sprone per un duetto inedito con sempre-verdi ragazze di Osaka.
Iacchetti introduce sul finale della seconda, lunghissima serata (oltre 4 ore di spettacolo) Eduardo Bennato e perde tutta la voce residua con Capitan Uncino trasformata togliendosi lo sfizio canoro in Capitan Enzino. E si toglie anche un sassolino nella scarpa spedendo una frecciatina, destinazione Striscia, al suo contraltare di comicità che guadagna una svizzera niente male alla corte di Ricci, ma perde forse il suo naturale alter-ego del lazzo nazional-popolare.
Non mancano le note stonate, non solo quelle delle improvvisazioni da spiaggia (che almeno sono annunciate dallo stesso Baglioni e quindi gradite per la spontaneità), ma quelle che colgono inattese. Si chiamano Mario Venuti, statua di sale sul palcoscenico, che sembra non si inserisca nello spirito della serata e qualcuno si chiede che ci sia venuto a fare a Lampedusa. E amaro in fondo, Edoardo Bennato. Il rocker di Bagnoli sembra essere sempre l'eterno ex di qualcosa, e con l'età non solo non muta il suo look da eterno anni-cinquantizzato nostalgico, ma addirittura assume aria da tribuno da "Hyde Park corner"quando fra una canzone e l'altra, regala logorroiche prolusioni verbali (sarà l'unico a buttarla anche sulla politica) alla platea che si assopisce o sghignazza (qualcuno fischia). Già alle prove aveva dato segni di insofferenza costringendo i tecnici del sound-check a ripetute correzioni di canale e i bagnanti a rituffarsi in acqua. Troppo lungo il suo intervento anche perchè ne risulta un mini-concerto di tre quarti d'ora. Una signora attempata, appena risvegliata da un lungo sonno esclama: "Bagghiòni mi piace, ma chistu che bole?" e torna a sonnecchiare sulla sedia portata da casa che affonda nella sabbia. E proprio Baglioni accompagna Bennato definitavamente nei camerini con il duetto de L'isola che non c'è, ma anche Claudio sembra stordito e non imbrocca una parola nè una nota. Notazione favorevole invece per il quartetto d'archi vocale femminile Solis, che accompagna il cantautore.
L'ultima serata è un diluvio. Meteorologico e di emozioni. All'ora d'inizio, quando tutti gia pregustano la sigla d'apertura (eseguita dal proprietario di un noto ristorante dell'isola, tale Antoine Michel, noto come Tony), viene giù il diluvio e dopo il fuggi -fuggi generale si deve attendere (per quei pochi che "prendendo in prestito" gli ombrelloni da spiaggia avranno il coraggio e la passione per rimanere nel fango) sino alle 22.30 prima di apprendere che il concerto è annullato. Rimangono in non più di un centinaio a sperare. All'improvviso Baglioni intona il pezzo più allegro che ha nel repertorio "è un pò che mi sento giù di corda" di Serenata in Sol e dalle tende camerino inizia a trasmettere le sue note di improvvisazione, con a seguire Guantanamera ed Io ho in mente te. I pochi rimasti si avvicinano e dopo un pò assisteranno ad una jam-session sotto un gazebo bianco con tutti gli artisti (tra i quali non c'è Bennato che preferirà andar via, deo gratias!) ad eseguire a braccio pezzi di Battisti a gogò, senza un filo logico musicale ma con la sola voglia di comunicare alla gente: "non andate via che siamo qui per voi". Baglioni canta con il bicchiere in mano e brinda con tutti, ebbro di gioia,
lui animale da palcoscenico, sta bene solo quando puo cantare, e si vede e balla con la sua compagna.
E' il miracolo di Baglioni che come lo spirito di Dickens allontana i cattivi presagi, e le nubi scorrono leggere fino a portar via l'acqua. Il karaoke finale sul palco è emozionante, con Enrico Brignano a tirare le fila delle residue voglie di cantare e a divertire il pubblico che frattanto si infoltisce di nuovo. C'è spazio ancora per un bellissimo duetto: Simona Bencini esegue con Baglioni, la suggestiva Stelle di Stelle e il pensiero va a Mia Martini. E stavolta le stelle iniziano ad apparire per davvero.
Volare chiude di nuovo la serata e stavolta sarà l'ultima esecuzione per O' Scià 2004.
Si intravedono, poco bagnati e molto divertiti, anche quelli della stampa che conta, l'eterno Luzzato-Fegiz e l'acida Menegoni, ma l'indomani scriveranno poco sui loro giornali, c'è Vasco Rossi che ha raccolto piu pubblico, anche lui gratis. Forse è meglio che non ci sia spazio per eventi come questo. Ciò lo rende più unico ed irripetibile nel suo genere. Baglioni rimane a Lampedusa, da solo a sorvegliare i suoi camion di strumenti che non possono partire a causa del mare in burrasca, mentre il suo carrozzone di tecnici, musicisti e body-guard va via. Come un nocchiero, ultimo crociato di una musica che scompare nel gorgo della contraffazione e della pirateria, lui prova a farla risorgere, dalle acque di un'isola che per tre giorni è stata centro di gravità di ogni emozione.
Chissà se ci sarà O' Sciàlando, qui alla Guitgia o altrove, ogni anno, ma una cosa resterà indelebile nelle menti di chi c'è stato e che faranno di tutto per non mancare la prossima volta rispondendo all'appello dell'ormai lampedusano Baglioni che griderà ancora :-O' Scià!. Quella volta in tanti risponderanno: "Cà semu!".

(dedicato a chi non c'era)


Alex di " Il sogno e' sempre "

io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare. navi in fiamme al largo delle coste di Orione raggi B balenare nel buio presso le porte di Tannoide. e tutti quei momenti andranno persi nel tempo come lacrime nella pioggia. e' tempo di morire. game over