PAROLE E MUSICA Dall’ InCanto al teatro San Carlo di Napoli 8 dicembre 2001
Primo Tempo ACQUA DALLA LUNA
Grazie moltissime a tutti quanti voi, buona sera perché sia anche una bellissima serata e benvenuti a questo ultimo atto di questo giro di concerti che si chiama InCanto. Questo giro di concerti è assolutamente singolare. Finisce appunto questa sera e l’unico aggettivo che ho trovato è proprio ‘singolare’: singolare per contenuti e singolare per fatti aritmetici. Come potete vedere, singolare nel senso di ‘solo’, ‘uno’, solamente una persona è sul palco; singolare maschile, uno appunto io… E’ singolare nel senso che uno è lo strumento: un pianoforte, come potete vedere. Sono stati singolari i luoghi dove tutto questo è avvenuto: i teatri italiani lirici e di tradizione più prestigiosi… E’ singolare anche il repertorio: ve ne accorgerete a vostre spese -peggio per voi che siete voluti venire!- e poi su tutto è singolare la motivazione. La motivazione è: dunque, io che riprendo il mio pianoforte, vecchio compagno di tante avventure musicali, lo porto a casa mia all’inizio di quest’anno e, aprendolo, scopro al suo interno una fascetta di carta. Sopra c’era una scrittura che ho immediatamente riconosciuto, una grafia a me molto cara, quella di mio padre, che appuntava alcune notizie su questo strumento musicale. Avrei voluto sapere molto di più, avere qualche altra traccia di lui, però anche questo è bastato a muovere una serie di ricordi, un vortice di ricordi ed io e il pianoforte ci siamo un po’ trasformati: io come se fossi stato unico equipaggio della sua capacità di navigare… Sembrava una barca, insomma, nel grande oceano della memoria… e mi è sembrato così importante tornare un pochino indietro e fermare, proprio in un momento in cui c’è difficoltà a progettare, ad avere un futuro, sapere che alcune cose erano accadute: c’è chi ha detto che il futuro ha un cuore antico e forse è per questo -e per l’ultima volta- che io chiedo a voi il permesso di poter dedicare anche questo concerto… a mio padre. PACE Quando ho aperto il mio pianoforte ho visto altre notizie… Sapete ogni pianoforte conserva al suo interno una serie di tracce e di memorie: innanzitutto ci sono delle cifre, in genere danno un’indicazione sulla data di ultimazione del pianoforte. Il mio è del 1907 e viene da Boston: è un pianoforte americano. Mi sono un po’ rinfrancato: era un inizio d’anno difficile questo qua, però appena ho visto questo "1907" ho detto "vedi il pianoforte è più vecchio di me!". Questo è un consiglio che voglio darvi: se siete appena un po’ giù di morale, compratevi un pianoforte…, ha questo potere taumaturgico… Pensate che io avevo un’amica tanti anni fa che studiava il flauto traverso…, l’ho persa di vista per un po’, poi le ho detto "come va lo studio del flauto?" e lei "mah, sai, ho cambiato idea, adesso studio il pianoforte, perché… il pianoforte… mi smagrisce!" Un mio amico, invece, tornando dalle vacanze -era stato al mare- lo cambiò e ne prese uno bianco, perché così… risaltava l’abbronzatura! Un altro nostro comune amico, anche lui studente di musica, era un ragazzo piccolissimo -lo prendevamo ferocemente in giro per questo- era proprio un tappettino e lui studiava il contrabbasso, sapete quello strumento a corda alto, ecco lo studiò, nel senso che studiò tre settimane il modo di arrivare fino in cima e, non essendoci mai riuscito, anche lui optò appunto per il pianoforte, però prima… gli segò le gambe… Il pianoforte quindi grande consolatore, grande suggestionatore: io, appunto, quando ho visto che era un pianoforte americano datato 1907 ho pensato "chissà che musica potrà aver suonato quando era un pianoforte bambino quando muoveva i primi tasti; magari era lì vicino in un porto americano e forse con questo tipo di aria e di musica…". UN PO’ DI PIU’ Il primo pianoforte che ho avuto a casa mia lo comprammo io, mio padre, mia madre e il mio maestro di canto: era un uomo stranissimo, suonava anche molto bene il pianoforte: era strano perché aveva delle mani piccole piccole, più piccole di quelle di Emilio Fede, eppure pensate era valentissimo come lui a sparare un sacco di note -chiaramente quelle di Fede sono note giornalistiche, le sue invece, note musicali- e lui ci accompagnò… Arrivammo in provincia di Frosinone, al negozio dove vendevano i pianoforti, tutti messi in bella mostra e sembrò proprio di entrare in un negozio di animali: sembra che tutti si girino verso di te per dire "prendi me!" "compra me!" ed io dicevo "adesso come potrò comprare tutti questi pianoforti?" perché c’avevamo la casa piccola, poi avevo sentito tutta la notte precedente mio padre e mia madre che facevano i conti sotto una lucetta fioca fioca e dicevano "ce lo potremo permettere questo pianoforte per Claudiuccio nostro?" Questa è una novelletta che non è stata inserita nel libro cuore perché era già stato scritto, se no… andava a pennello, proprio perfetta… Insomma alla fine decise il maestro di canto: le sue manine dissero "questo è il pianoforte adatto per Claudiuccio… vostro!" ed io per non assistere a questa scena pietosa, mentre mio padre tirava sul prezzo, ma tirava anche il pianoforte per non farselo scappare, andai dietro, nel retrobottega dove tenevano i pianoforti, quelli sgangherati, quelli vecchi, quelli che nessuno suona più e fanno un po’ pena perché sembra come di entrare in un ospedale, in un sanatorio: son messi sopra dei cavalletti, son mezzi rotti, le tastiere sono sbeccate come dentiere rovinate… Allora mi sono augurato da quel giorno -e da allora me lo auguro ogni giorno- che ci sia un luogo e un tempo per il riscatto, per il riscatto di tutte le cose che hanno finito il loro tempo e magari ci sia un paradiso per i pianoforti e chissà, lì vicino, una casa per tutti gli uomini persi… UOMINI PERSI Il primo pianoforte che ho suonato, invece, era un pianoforte verticale: era di un mio maestro di musica ed era un pianoforte appunto verticale. Io andavo da questo maestro tre volte a settimana e facevo con lui lezioni di solfeggio e poi facevamo insieme anche degli esercizi a quattro mani, che non sono né una pratica ginnica o tanto meno godereccia, ma sono degli esercizi musicali, che prevedono che l’allievo e il maestro mettano sulla tastiera tutte le mani che hanno a disposizione, due ciascuno, quindi quattro mani. Li deve avere inventati una mente diabolica perché l’allievo che siede da questa parte fa delle cose tipo: [esegue due semplici accordi] siccome fa sempre questo, quando ci prende un pochino gusto fa anche una faccina compiaciuta tipo… invece da questa parte c’è l’insegnante cha fa delle note gravi, cose tipo… [esegue una piccola partitura un po’ più complessa] e l’allievo appena sente tutto sto popò di roba, tutte ‘ste note, dice "Madonna quanto so’ bravo!" e, anche se è scarsissimo, continua ad andare tutta la vita dal maestro, convinto di diventare prima a poi Rubinstain: questa è davvero la diabolicità della mente che li ha inventati. Potrebbero avere un inconveniente, perché allievo e insegnante siedono sulla stessa panchetta: io son stato fortunato perché il mio maestro di musica era l’uomo più magro di Roma, di una magrezza spaventosa, pensate era un uomo -se si può dire anche in questo luogo- un uomo senza sedere, ma non che fosse sfortunato, non aveva proprio il sedere fisicamente: le gambe a lui gli partivano direttamente dalle vita come due tronchettini inguainati dai calzoni. Io non mi ero accorto, all’inizio, di questa sua caratteristica tant’è che dicevo "ma guarda come è gentile, è seduto proprio in pizzo in pizzo per non darmi fastidio!" e dicevo "guarda quanto è carino, è seduto su una chiappa sola!" invece, non aveva nemmeno quella! E’ stata una fortuna… Però lì ho capito che c’è anche una sfortuna: i pianoforti sono anche dei mobili… Sul nostro c’era un bel vaso con dei fiori dentro… la madre li cambiava tutti giorni eppure davano una puzza terribile: io c’ero proprio davanti, inalavo questo simpatico odorino e dicevo "vedi è proprio vero che la musica, l’arte sono sofferenza, bisogna soffrire, bisogna faticare!". Intanto inalavo, però anche un po’ m’illudevo -anche se ero un ragazzetto, insomma, e facevamo degli studi classici- e dicevo "secondo me stiamo diventando un po’ dei musicisti alternativi e questo è l’inizio di una sniffatina!" Succedeva che poi lo prendevo io perché… anche se io ero piccolo -c’avevo dodici o tredici anni- il naso già ce l’avevo così, per cui prendevo tutto quanto io, avendo questa bella capacità di inalazione. Quindi il pianoforte è anche mobile: c’è gente che ci mette i fiori, lampadari, lampade, ammennicoli, soprammobili… qualcuno drammaticamente ci pone proprio lì immezzo un… centrino, anche da solo, per indicare evidentemente quale è il centro… ed altri più gentili,in bella mostra, quelle tante cornici d’argento, quelle che raccolgono le scene mute della nostra vita. Io ce ne avevo una proprio di fronte e, con questo paradiso artificiale proprio di fronte, sognavo che avrei avuto anch’io un giorno, chissà, delle immagini da tenere dentro una cornice d’argento, per imprimerle ancora più forte nel cuore. FOTOGRAFIE QUANTE VOLTE Ho avuto anche un maestro straniero, un maestro argentino che si chiamava Nìcolas Amato. Dopo due anni lui è venuto da me e ha detto "guarda non posso più darti lezioni, devo tornare a Buenos Aires e poi volevo anche dirti che non mi chiamo Nìcolas, mi chiamo Nicolàs… o Nicòlas…(?) Bèh voi non ci crederete -per me era più o meno la stessa cosa e poi Nìcolas era più argentino, più tango- eppure io da quella volta sono stato traumatizzato dagli accenti. Noi per anni abbiamo studiato le cose in un certo modo e poi tutt’a un tratto cambiano. Io ho studiato, per esempio, che per dare un aggettivo ad edilizia si diceva edìle, poi ad un certo punto è diventato èdile, va bene, utensìle è diventato utènsile, va benissimo, leccornìa è diventato leccòrnia, va be’ tanto si lecca, per cui è la stessa cosa… Guaìna è diventato guàina: effettivamente guaìna fa un po’ schifo, poi non so guàina sembra che tenga di più, con guaìna sembra che schizzi via tutto. Si dice, non so, questo posto ha un clima salùbre, invece è diventato sàlubre, va benissimo, mi arrendo, tanto son parole che nessuno usa più, però, invece, ci sono delle parole di uso comune come specialmente certi nomi. I telegiornali e i giornali radio "dociono":allora Kòsovo/ Kosòvo, in tutte e due le maniere, Hiroshìma ad un certo punto è diventato Hiròschima, mentre Ucràina è diventato Ucraìna, la capitale della Turchia Ankara è diventato Ankàra, Istambul sta diventando Istàmbul. Per anni abbiamo detto "chi c’è in pole position?" Michael Shumàcher… no… Schùmacher! E adesso te lo dicono come per dire "fesso, non vedi che non sai pronunciare?" Per otto anni noi Shùmacher, adesso, Shumachèr. Vi dicevo che, nella incapacità di decidere, adesso si dicono in tutt’e due i modi: io ho sentito dire dallo stesso giornalista, nello stesso telegiornale, alla distanza di un secondo e mezzo, Kòsovo e Kosòvo, come fossero due posti diversi. Oppure il ping pong: Afghanistan/Afghanistàn -tra l’altro sono dolenti queste note- Pakistan/Pakistàn… anche quel birbante lì, quello sciagurato col turbante e con la barba…: Bin Làden o Bin Ladèn… pure lui… ora, io dico, ha fatto tante cose poteva mandare anche un video messaggio per dire, io mi chiamo così, no? Va bèh almeno uno si metteva l’animo in pace… Ieri guardavo una sua foto: sembrava un personaggio di quello scrittore -magari, almeno quelle erano favole- Emilio… Sàlgari o Salgàri? Quello che scrisse tutta la saga dei pirati di Mompracèn o Monpràcen, il cui personaggio era Sàndokan o Sandokàn… Non siamo più certi di niente… Eppure pensate che il mio maestro Nìcolas/Nicòlas/Nicolàs diceva che, più sposti gli accenti in musica, più la musica diventa affascinante. È un po’ come se gli elementi antagonisti creassero qualcosa di più succoso, di più pulsante. Io ho scritto tanti anni fa, sempre nel secolo scorso, nel 1969, una delle mie prime canzoni, una tra le più sconosciute, che parla appunto della eterna storia d’amore tra due elementi del nostro cosmo, che, forse proprio per il fatto di non riuscire mai a raggiungersi, continuano ad amarsi alla follia. IL SOLE E LA LUNA C’è un fatto curioso: pensate in spagnolo suonare si dice tocàr. Si dice "tocar el piano", "tocar la chitarra", "tocar el baco", tocar … quel che ve par, insomma, ma tocar comunque qualcosa. E questo binomio è curioso, questa illusione: toccare e quindi anche suonare. A me è capitato di toccare non solo un pianoforte, in un giorno particolare delle mia vita nel 1970, in una piazza della Polonia, a Cracovia, e di vedere come se il mondo mi passasse tutto davanti in un solo istante. C’era un pianoforte da concerto in mezzo alla piazza, io mi son messo lì, ho strimpellato un po’ -nessuno mi ha mandato via- e non so, non so se poi quelle scene le ho viste veramente, ma se anche non ci fossero state io continuerò a non dimenticare. LE RAGAZZE DELL’EST Il titolo di questo giro di concerti che sta terminando è stato Incanto: Incanto è l’unione della preposizione ‘in’ con la parola ‘canto’, proprio perché, tra l’altro, si svolgeva in questi luoghi che sono stati creati intorno al canto e al teatro cantato… e poi forse anche, il tentativo, la speranza di creare un incanto in mezzo al tanto, al troppo disincanto dei giorni della vita… Però sapete che incanto è anche un modo di proporre le cose: si dice "una vendita all’asta", "mettere all’incanto", "vendere all’incanto"… Io c’ho un mucchietto di canzoni, tra le tante scritte, che trovano sempre una difficile collocazione e ogni sera ho fatto -e questa sera appunto per l’ultima volta- ho fatto questo giretto attraverso i titoli. Ve li dico, se ve li ricordate: dite di sì anche per pietà, comunque: Giorni di neve Chissà se mi pensi Come ho amato dire più volte, questa è del periodo quaternario, mesozoico… E ci sei tu A modo mio Ora che ho te Notte di Natale È una parola qui… Il mattino si è svegliato Doremifasol Fratello sole sorella luna Ti amo ancora [le varie proposte ricevono i medesimi grandi consensi] Allora ogni sera è stata una tragedia questo punto, perché non si riesce mai veramente a mettere d’accordo nessuno. D’altronde, sapete, diceva un mio amico: "quant’è bella la democrazia, peccato che votino tutti!" E allora ogni tanto deve decidere uno e questa sera, per l’ultima volta, deciderà uno: io! Sentite facciamo un giochetto, l’ho fatto praticamente sempre e lo farò anche stasera: siccome tutte non possiamo farle, perché domani sera il teatro ha un impegno, io farei così, come si fa dal profumiere: un assaggino, tanto non costa una lira di più… Campioncini FRATELLO SOLE SORELLA LUNA Grazie infinite per questo incanto… C’è un elemento che dicevo è importantissimo nella musica ed è il tempo e forse è importante come il tempo della vita… C’è un aggeggio infernale che vi mostro: questo è un metronomo e il metronomo è una specie di dittatore dei musicisti, insegna loro a non avere più libertà, in fondo, quella bella libertà di poter suonare come si vuole, senza un concetto, senza una scure, una scure che ti taglia la testa come fosse una lama. Io ho scritto una canzone che amo molto e che parla di quel tempo della vita in cui non sai, avendo una porta davanti, se devi aprirla per andare via definitivamente o se restare e se quel tempo sarà, da quel punto, da quel giorno e da quel momento eterno. E vorrei questa sera suonarla e cantarla con questo metronomo, che batterà il tempo musicale come se fosse il tempo della vita: sessanta battiti al minuto. FAMMI ANDAR VIA Fine primo tempo
Secondo tempo REGINELLA Grazie moltissime, bentornati, bentrovati. Facciamo questa pausa io e tutti i miei compagni di lavoro -che saluto e che ringrazio per questa splendida avventura vissuta insieme-, la facciamo,dicevo, non per motivi particolari e neanche per far riposare me, perché io sono praticamente indistruttibile, ma la facciamo per dare modo, a chi lo volesse, di andare via… Chiaramente, comunque io me ne andrei in camerino, per non assistere a questa scena, perché sarebbe per me una ferita mortale! C’è una scena, invece, che mi piace osservare -ed anche in questa città si può vedere bene- mi piace osservare la vita, la vita delle persone, le città dall’alto. Ogni tanto c’è quasi bisogno di staccarsi, per capire che c’è comunque un senso alla fine di tutto quanto. È un po’ come osservare il pianoforte da qui: il pianoforte, lo sapete, è una macchina meravigliosa, uno strumento inventato in Italia trecento anni fa, ed ancora oggi è un miracolo di ingegneria, di acustica, di falegnameria… oltre ai tasti c’è una serie di meccanismi, di marchingegni, che, interagendo uno con l’altro, fanno in modo che un martelletto colpisca una corda ed ogni corda ha un suono, una nota… E’ un po’ come la vita di noi tutti: ognuno di noi è una sorta di martelletto, di marchingegno, di meccanismo, che va ad interagire con qualcos’altro, con qualcun altro… anche quando quella storia non è conosciuta, anche quando non incontriamo mai effettivamente quell’altra persona. È un po’ come se si suonasse una partitura d’insieme, così è in fondo la vita… Sapete, in musica ci sono delle note stonate, ci sono spesso degli accordi dissonanti, così come nella vita ci sono storie infelici ed anche nelle storie felici c’è qualche momento negativo. A me piace pensare -e forse per quello mi si acquieta ogni tanto un po’ di irrequietezza ed anche di malinconia- mi piace pensare che, quando uno guarda tutto dall’alto, trova un senso per tutto e per tutti quanti. È un po’ come se, anche se fossimo solamente un tasto o addirittura solo un meccanismo, ecco, come se senza di noi, senza nessuno di noi, si potesse suonare la sinfonia della vita. AMORI IN CORSO Dicevamo come in spagnolo suonare si dica tocàr… allora in altre lingue in francese si dice jouer giocare, suonare si dice giocare; in tedesco di dice spillen, appunto giocare e suonare in inglese si dice to play, di nuovo giocare. È curioso anche questo: che in tre lingue -tra l’altro anche molto importanti-, si dica in tutte e tre nello stesso modo sia giocare che suonare… E forse suonare è veramente giocare, giocare tutta la vita e forse per questo i musicisti rimangono sempre un po’ infantili, insomma, forse perché tentano o tendono a rimandare il più possibile l’ultimo degli appuntamenti. Io ho scritto una canzone che parla di un musicista come di un essere qualsiasi, di un essere umano come tutti, ma che un giorno decide di aprire la porta, di fare quel viaggio che bisogna ogni tanto fare, da soli. Non si sa se sia un viaggio fisico o intellettuale, ma bisogna andare a trovare nuove cose, nuove sorprese, perché questo è l’impegno della vita, è l’impresa. È una specie di cavaliere, di cavaliere che partecipa al torneo della vita -o a una tournee, come può essere quella di un musicista- e ogni volta rimette in gioco, ogni sera, in ogni rodeo, in ogni torneo, tutto quello che ha vinto -perché questo è l’importante- e a volte anche la stessa vita, perché nel gioco della vita questo è il pegno. LE VIE DEI COLORI Dicevamo che sarebbe straordinario colorare le strade, poterle riempire di colori, poter avere un paradiso per i pianoforti, una casa per gli uomini persi e magari un carnevale… un eterno carnevale per tutti gli uomini tristi. NEL SOLE NEL SALE NEL SUD Questo con un tassista di Rio è stato un incontro senza parole, come lo è stato per me un altro incontro…, una storia che non aveva bisogno di parole, un po’ quello che succede quando sono di fronte un musicista, un pianista e un pianoforte, uno strumento musicale. SIGNORA DELLE ORE SCURE Grazie anche per questa canzone, che per la prima volta ho fatto in un giro di concerti. Non è stata questa, invece, la prima volta -anzi in tutte le sere l’ho fatto- in cui ho dato questa graziosa manata al pianoforte e questo poco male sarebbe, dato che io sono praticamente indistruttibile. Il pianoforte, invece, io non so mai come se la cava: bisogna fare quindi un piccolo test… [suona qualche nota che risulta ‘stonata’] …non se l’è cavata bene, come diceva il nostro amico di Salerno, l’altra volta, "s’è scassato u’ pianoforte!", però potremmo fare comunque qualcosa: il pianoforte si trasforma, in un certo senso, e potremmo fare delle musiche che potrebbero tornare utili anche per la pace tra i popoli, tipo… [suona una breve melodia che fa pensare al mondo arabo] oppure delle cose per un pianino stonato. Io ce ne avevo una di tanto tempo fa che faceva… PORTA PORTESE Qui il copione prevede che il protagonista faccia un’espressione stupita, come per dire "chi ce l’ha messo?". Questo sapete cos’è? È un pezzo residuo di pianoforte di Porta Portese: a Porta Portese vi danno tanti pezzi così e poi il kit di montaggio, così ve li fate da soli…: classica ‘sola’, …fregatura! Ecco, se si potesse fare questo anche nella vita: prendere il pezzo guasto, il pezzo che non funziona, il pezzo marcio e tirarlo via, estirparlo, il guaio buttarlo via. Invece nella vita questo non è possibile: anzi, i guai resistono, sono terribili, sono come un’erba cattiva… In tutti questi giorni c’è stata una frase ricorrente: "niente sarà più come prima" ed io, invece, temo seriamente che tutto sarà sempre come prima e tutto è sempre stato così. In fondo noi abbiamo sempre avuto -e avremo, purtroppo, forse- nelle orecchie gli echi dei rumori di gente che fa una rissa da qualche parte, se non una battaglia… Echi di ferite, echi di suoni sordi, di suoni brutti, di suoni di metallo, di suoni profondi, che non chiamano e non ricordano niente di buono. È un po’ come se noi, ogni tanto, dovessimo per forza guardare il cielo e aspettarci, invece che delle belle promesse, qualche notizia cattiva e questo accomuna un po’ tutte le persone di tutte le latitudini, non importa che abbiano un vestito diverso o credano in un dio di qualche altra fattezza, se abbiano delle opinioni diverse… Lo strano è che a rimetterci sempre sono quelli che fanno parte della cosiddetta povera gente e non so quali sono i mezzi per fare in modo che questo non accada più. Vorrei veramente che certe canzoni non esistessero più, che certe cose non dovessero essere più cantate, certe marce mai più fatte. Sarebbe straordinario se un giorno uno accendesse la radio o la tv per sentire, finalmente, che anche l’ultima delle guerre è finita. Che non ci sia più una comparazione tra le cifre delle vittime e le quotazioni delle borse, anche perché le borse hanno un segno più ed un segno meno, le vittime hanno solo il segno meno. NINNA NANNA NANNA NINNA BUONA FORTUNA Quando avevo più o meno cinque anni, mio padre arrivò a casa con un curioso giocattolo, che poi non sembrava nemmeno un giocattolo… Non ci crederete: era un pianofortino lungo così… :bèh, è la prima volta che nomino il pianoforte, quindi non c’è niente da ridere!… Aveva quattordici tasti: erano solo bianchi, i neri li avevano disegnati… Devo dire che allora cominciai con le dita -con i ‘diti indici’- a batterlo un pochino… Poi nel tempo l’ho perso come tante altre cose di quel periodo e non solo di quello… Mi viene spesso in mente, quando penso a quel piccolo pianoforte, il bellissimo libro, monologo, di Alessandro Baricco, che si chiama "Novecento", dal quale Tornatore ha tratto un film altrettanto bello: "La leggenda del pianista sull’oceano". È la storia di un bambino che nasce a bordo di un transatlantico, che fa la spola tra Europa e America e impara a suonare il pianoforte, anzi, lui suona il pianoforte mirabilmente nell’orchestra che accompagna i viaggiatori su questa nave. Un giorno ha la tentazione di scendere da questa nave, sta sulla scaletta, ma appena vede il mondo, le tante persone, i bagagli, le strade, le finestre, le case si intimorisce e dice "oddio, dove vado adesso? Io conosco il mio mondo: gli ottantotto tasti del pianoforte. Io lì dentro trovo già milioni di combinazioni, adesso entrare in questo mondo molto più grande, dove ci sono altri miliardi, miliardi e miliardi di combinazioni per me sarebbe terribile. Quello è il mondo: è un pianoforte troppo grande, a quel pianoforte si può sedere soltanto Iddio!". Allora rinuncia, decide di non scendere più e morirà su questa nave. Io penso che, in fondo, in questo ci sia una piccola verità: questa mania, questa fobia che ci trascina verso questo villaggio globale, verso la globalità a tutti i costi, dove vogliamo sapere -e sappiamo- in qualche modo quello che succede dall’altra parte del mondo, (ma poi non abbiamo neanche i mezzi per intervenire) ci faccia ogni tanto smarrire la strada e non ci faccia vedere le cose che abbiamo più vicine… Magari, ecco, in questo senso anch’io ogni tanto vorrei riappropriarmi di qualcosa che se n’è andato…: magari anche di quel piccolo pianoforte di quattordici tasti. AVRAI Insomma, non so se sia stato un segno del destino quel piccolo pianoforte, ma comunque mi ha indicato una specie di strada nella vita ed è stata una strada meravigliosa, fortunatissima. Ogni tanto sono di cattivo umore, ma poi non appena vedo che sono troppo di cattivo umore mi do uno schiaffo da solo e dico "cretino, ma perché ti lamenti? Ti è andata così bene!". Ed è stata veramente una meravigliosa storia quella di poter scrivere canzoni, di poterle pensare quando qualcuno ancora non le ha ascoltate e dire "chissà come saranno, come le prenderanno", di poter vedere le persone anche senza avere un contatto, ma certe volte ci sono delle vibrazioni che fanno anche più di una stretta di mano. La cosa straordinaria è anche quella di aver avuto tante persone in più di trent’anni… C’è una bella frase, sempre di quel libro e quel film, che dice il trombettista -quello che poi racconta tutta la storia di Novecento- e dice "vedi amico, non sei fregato mai veramente quando hai una buona storia da parte e qualcuno disposto ad ascoltarla". Ecco io voglio dire grazie veramente a tutte quelle persone, in tutti questi anni, e dire, in questa sera, grazie a voi per aver ascoltato tutte queste mie storie… Grazie di cuore!
Dicevo che è stata una storia molto bella, una storia che dura, tra l’altro, e questo la rende ancora più bella… È bello saper che in altri luoghi -ed io stasera vi ringrazio per il modo attraverso il quale avete fatto suonare questo teatro- ci sono dei posti in cui queste canzoni sono state cantate da molte persone assieme e questo riempie di soddisfazione chi le ha scritte, perché ha la sensazione che queste siano delle canzoni che passeranno anche con il tempo, nel senso che lo passeranno, lo travalicheranno… e che assomigliano un po’ a dei corali, a degli inni. Io ho scritto degli inni, nella mia vicenda musicale, alcuni su commissione… Alcuni anni fa, in un’intervista con un famosissimo giornalista del TG1, Vincenzo Mollìca, … o Mòllica…, va bèh… il buon Vincenzo, mi chiese "ma come mai Lei scrive così tanti inni?" Ed io "mah… forse perché sono un artista inno…vativo!" Lo so: era una scemenza colossale, però certe volte non si sa cosa rispondere, si è un po’ indifesi e si spera che queste risposte siano, in qualche maniera, anche inno…cue! Io devo dirvi che poi nella vita ne ho dette tante altre di fesserie… A me piacciono, tra l’altro, perché rendono la vita più leggera e forse più interessante e d’altronde io ci sono affezionato perché non si butta via niente, come il maiale… Spero solo che un giorno, quando ci sarà davvero l’ultimo concerto -speriamo più in là possibile- quando ci sarà questa esecuzione davanti a una giuria, spero di essere giudicato quella volta con un po’ di indulgenza e considerarmi almeno per gli altri un po’ inno…cente. Inni STAI SU CON TUTTO L’AMORE CHE POSSO AMORE BELLO E TU MILLE GIORNI DI TE E DI ME TU COME STAI SOLO Fine
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