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E’ una canzone contenuta
nell’ultimo album di Claudio Baglioni, uscito il 23 maggio scorso.
Prima di entrare nell’ambito dei tratti semantici del testo, mi piacerebbe
far osservare l’armonia dell’impostazione metrica. Senz’altro, le stanze di
questa canzone sono state giustapposte in maniera geniale, proseguendo con
una certa libertà per quello che riguarda la forma metrica che (come nella
migliore tradizione baglioniana e della poesia novecentesca, nonché della
canzone italiana), spesso non rispetta i canoni della tradizione dei
principali schemi di componimenti letterari come la ballata, la canzone o il
madrigale. Nonostante lo schema generale sia non conforme alla tradizione,
la traccia metrica aggiunge tratti significativi alla già elevata valenza
semantica delle parole. Lo schema è il seguente: strofa, verso chiave
“camuffato” (o concatenatio dantesca, naturalmente con significato
“traslato”, in questo schema nuovo, a puro verso di unione in assonanza col
“patapàn” del titolo, vera chiave che precede e chiude il ritornello),
strofa, prima variazione, strofa, seconda variazione, concatenatio (questa
volta vera e propria, con un crescendo fondamentale), ritornello,
concatenatio, strofa, terza variazione, concatenatio (anche qui a mo’ di
climax), doppio ritornello con verso chiave conclusivo.
Analizzando, poi, la composizione di ogni strofa ci si rende conto che
Baglioni pratica un anisosillabismo tra ottonari e novenari, modalità
propria delle composizioni giullaresche o degli autori di laudi
(riscontrabile nel laudario di Cortona, fino a Iacopone). In questo modo
particolare di usare il novenario si può riscontrare l’intenzione di
Baglioni di proporsi a “giullare per lodare il papà”. Una prova
inconfutabile di quest’uso si potrebbe riscontrare nel fatto che nel secondo
verso della prima strofa, “sono lucine o sono stelle”, Baglioni sposti
l’accento metrico (ictus) della parola “sono”, cercando di marcare
maggiormente la sillaba “no” e donando al verso un ritmo ascendente, secondo
la particolarità propria del novenario giambico, col primo accento sulla
seconda sillaba ed alternando “giambicamente” atona e tonica. Il novenario
giambico così formato va ad alternarsi con l’ottonario “trocaico” (cioè con
primo accento sulla sillaba iniziale, secondo lo schema del trocheo latino).
Ineluttabilmente, poi, quest’alternanza di ottonari e novenari (che
verosimilmente dovrebbero riprodurre l’octosyllabe francese) si ripete nelle
prime due strofe, visto che nelle strofe successive Baglioni introduce un
senario (“messo come prua”, “di una spinta in giù”, versi che anche
semanticamente sottolineano una certa confidenza col padre) tra ottonario e
novenario, probabilmente per significare una certa “confidenza” col ricordo
del padre dopo le prime battute impacciate ed anticipando ciò che avverrà
nei ritornelli.
Lo schema metrico delle variazioni procede con andamento lineare: settenari
con ottonari tronchi per al prima e terza variazione, settenari con ottonari
con dieresi finale per la seconda variazione, e con rime che seguono schemi
ogni volta diversi, ma che ripropongono in più di una variazione solo –egno
(nella prima e nella terza variazione, non a caso il “legno” è il cavallo
che gli permetterà di raggiungere in padre in una situazione onirica) e –an
(oppure –am di “tram”, nemmeno qui a caso perché è il rumore del cavallo che
galoppa verso il suo sogno di rincontrare il padre).
Nel ritornello di metricamente significativo si può riscontrare l’uso
dell’endecasillabo dopo il “ciao pà”. Sono tre endecasillabi per ogni
ritornello (unici tre dell’intera canzone) e esprimono concetti fondamentali
per esplicare lo stato d’animo del protagonista ed il contesto: “ma quante
strade di sentieri bianchi”, “così hai saltato giù e ora sei in volo”, “ma
dimmi dove è che stiamo andando”, con meravigliosa dialefe tra “dove” ed
“è”, col cantante che sembra sprofondare in quella “è” con tutta la
profondità della sua voce, che evidenzia l’incertezza dell’andare avanti).
Terminata questa noiosissima e opinabile analisi metrica mi piacerebbe
addentrarmi sul profondo significato del testo. Il testo è una dedica al
padre scomparso all’inizio del 2000. In avvio si sente un suono di accordi
molto bassi, come un pianoforte solo e desolato, che sembra ripetere i versi
di Guccini nella canzone “Quello che non…” quando dice:
“Lo senti quel suono di un piano,
di un Mozart stonato che prova e riprova,
ma il senso del vero non trova”.
In effetti il piano sembra scordato e lontano, di sicuro sconfortato dal non
riuscire a spiegarsi qualcosa. Forse è il voler comunicare di Baglioni che
in lui è ancora vivo il ricordo di un bigliettino trovato in un suo vecchio
pianoforte, che recava la data dell’ultima volta che il piano era stato
accordato. Quella calligrafia era del padre e la tristezza di questi accordi
iniziali acuisce, forse metaforicamente, la mancanza di quell’ “accordatore
speciale” (la notizia del ritrovamento del biglietto viene direttamente da
Baglioni durante il suo tour “Incanto tra pianoforte e voce”).
La prima immagine del testo ci presenta il ricordo. Si parte con una
immagine richiamata da un odore che è ancora sulla pelle. Presumibilmente
qui si allude al sangue del padre che scorre ancora nelle vene del figlio,
per poi ricordare le domande che il figlio Baglioni rivolgeva al padre. Qui
il figlio è ancora distante dal padre e la frase che unisce le prime due
strofe ci spiega, con un’azione metatestuale, che si è ancora nel ricordo:
quel “ti ricordi pà” ci fa capire che la tristezza di Baglioni non si avvede
della lontananza del padre ed il tutto è ancora un inutile modo di scacciare
via la tristezza tramite il ricordo. Da sottolineare la familiarità del
saluto nelle canzoni di Baglioni: in “Viaggiatore sulla coda del tempo”
(album precedente) c’era una canzone, “A Cla’”, in cui il cantante salutava
l’uomo e lo faceva quasi in romanesco, sordizzando la velare di Cla’,
arrivando quasi a dire “A Gla’”. Questo succedeva soprattutto nei concerti.
In “Patàpan” lui romanizza già la prima frase rivolta al padre e quel “ti
ricordi pà” diventa quasi una frase dialettale.
Nella seconda strofa c’è una ulteriore immagine dei due che camminano ed il
figlio è ancora lì che si pone domande, ancora immensamente più piccolo del
padre. Sembra di rivedere l’immagine di una canzone di De Gregori, “La casa
di Hilde”:
“L’ombra di mio padre è due volte la mia,
lui camminava ed io correvo”.
In effetti il figlio, anche nella canzone di Baglioni, non riesce a stare
dietro al padre, così il padre gli trova un legno. Quel legno è forse
l’immagine più importante dell’intera canzone. Nel ricordo Baglioni figlio
monta sul legno come si farebbe con un cavallo ed il padre lo fa galoppare,
facendogli fare il rumore “Patapàn”.
Baglioni, parlando di questo suo ultimo disco, lo ha definito una “Antologia
di inediti”. In effetti nelle canzoni non è difficile scovare molte immagini
già presenti nelle sue precedenti produzioni. Le immagini di “Patapàn”
spesso riconducono ad una sua precedente canzone “Naso di falco”, contenuta
nell’album “Oltre” del 1991. Cito da “Naso di falco”:
“si è fatto grande il piccolo guerriero
legni incartati non ci son più
da cavalcare sul sentiero del sole
e del serpente contadino”.
Ora: naturalmente il serpente contadino è l’immagine della stradina di
campagna prsente anche qui in “Patapàn” (prima strofa). In “Naso di falco”
Baglioni elenca moltissime domande che lui si faceva da bambino,
ricollegabili alle prime strofe di “Patàpan” in cui lui pone domande al
padre. In più l’immagine del legno inarcato da cavalcare fa il paio con
quelli di questa nuova canzone. Direi che è lo stesso legno. Legno che ora
l’adulto Baglioni non trova più (“legni inarcati non ci son più”) perché era
solo il padre che poteva darglieli. Solo il padre poteva tendergli quella
mano e, come vedremo più avanti:
“senza un legno adesso
un po’ più piano vado
e spesso cado”.
Poi Baglioni acuisce ancora la sensazione di sicurezza che il padre gli
dava, diventando tutt’uno con quella situazione, ricordandosi le corse nelle
praterie quando il cuore (tam tam nel vocabolario baglioniano) gli batteva
forte per l’emozione ed il marciare del suo cavallo avanzava accompagnato
dall’armonia di un suono di fanfara, chiarissima metafora dell’imbattibilità
e della virilità (nel senso di forza indomabile) di quel sentimento e dello
stato d’animo del bambino Baglioni. Già, perché da questo momento Baglioni è
completamente immerso in quella situazione. Ecco che la fanfara aumenta
grazie alle braccia forti del padre (elemento che acuisce la virilità). E’
bastato un primo rumore del suo cavallo, quel primo patapàn dopo il primo
schiocco. Adesso Baglioni è al galoppo (significativo foneticamente il
pronunciare la parola “schiocco”, “occhi”, “ginocchi storti”, con consonanti
occlusive che rendono l’idea del cavallo che non bada a quello che gli si
para di fronte durante la cavalcata nella prateria e tra gli alberi). Qui
c’è il capolavoro: nell’infinita successione dei vari patapàn (mirabilmente
eseguita da una voce “ritrovata” come quella di Baglioni) Baglioni si libera
completamente della sensazione terrena. Oramai è al galoppo e supera l’Oltre
per mezzo di questo cavallo. Significativa è la canzone “La piana dei
cavalli bradi”, dove il protagonista superava l’oltre proprio grazie alla
forza selvaggia di questi cavalli. Il cavallo qui è il mezzo del ricordo
lasciatogli dal padre per raggiungere la sua immagine. Magicamente ed dopo
questo climax ascendente, Baglioni si trova di fronte il padre e lo saluta
in tono del tutto familiare. In quel posto ci sono strade di sentieri
bianchi (forse il “sentiero del sole” di “Naso di falco”), da camminare
senza stancarsi mai (Paradiso?). IL figlio Baglioni vuole dimostrare al
padre che adesso riesce a correre veloce: “papà guarda come sono bravo”
sembra dire ad una figura paterna che sembra quasi assente, proprio come lo
sono nel sogno le cose che sognamo. D’improvviso però il padre resta
indietro e sopraggiunge l’immagine di una croce, l’immagine di morte.
Baglioni ripiomba immediatamente in terra, sotto una croce, di fronte alla
croce del padre. Ci erano voluti tutti quei patapàn per raggiungerlo, ne
basta uno per ripiombare giù: metafora impareggiabile della vita.
A questo punto c'è una parte importantissima: il fischio. Dopo aver nominato
"il tuo fischio" nel testo, il ritornello si riallaccia alla strofa
successiva con un fischio melodico. Baglioni aveva già usato il fischio per
l'introduzione di una sua canzone del '95 "Titoli di coda", canzone nella
quale immaginava la sua morte. Nell'ultimo tour "Incanto tra pianoforte e
voce", già citato, introdusse in scaletta una canzone fischiettando (si
tratta di "Quante volte") e, visto che il tour era dedicato al padre, tutto
sembra molto di più che una coincidenza. In modo particolare fa riflettere
il fatto che questo fischio addolcisca la differenza tra il ritornello (come
detto, sogno) e la strofa successiva (ricordo malinconico). Il fischio,
forse, era una caratteristica del padre. Ora Claudio lo rivede in quel
fischio, lo "rincorre dietro un fischio". (Grazie Elisa!)
Il padre ed il figlio ora tornano a camminare in coppia solo nel ricordo.
Probabilmente il figlio è di fronte alla tomba del padre. Gli sovviene
l’immagine dei loro giochi e del padre che effettua una macabra finta di
buttarsi giù da un burrone (o forse spingeva il figlio per finta?).
Nonostante tutto, questo faceva ridere il figlio, lo faceva ridere “col
fiatone”. Da notare che la camicia è stinta. Forse è per via del ricordo,
forse è stinta perché ancora non del tutto materializzata di fronte al
Baglioni figlio che sta, comunque, per ricominciare la galoppata verso il
padre. Ricorda i dubbi del padre; questa volta è il padre a non riuscire a
capire come mai la vita non è come un tram (immagine riconducibile a “Cuore
di aliante”: “come un viaggio in tram che ti siedi giù e è il capolinea”).
Di nuovo lui torna a galoppare, quasi per rassicurare il padre, per
“sgridarlo” di aver saltato giù da quel tram o da quel ciglio di un burrone
(se così fosse si svelerebbe il macabro del gioco del padre al figlio). A
questo punto mi sembra doveroso fare un’altra citazione in questa canzone.
La melodia delle strofe qui è simile ad un’altra canzone di Baglioni: “Gagarin”.
Questa è una vera e propria citazione: come, infatti, Gagarin aveva sfidato
Dio voltandosi a guardare la Terra, così il padre è saltato giù davvero dal
burrone. Anche se non fosse questa l’interpretazione, infatti, la citazione
resterebbe valida perché in “Gagarin” il ritornello diceva “e ancora adesso
io volo”. Beh, quel volo è di sicuro lo stesso del padre nell’endecasillabo
“così hai saltato giù e ora sei in volo”.
Ad ogni modo, dopo aver galoppato ancora tanto per raggiungerlo, Baglioni
ritrova il padre. E’ lontano, lui lo saluta. E’ lontano come nel primo
ritornello. Baglioni si rende conto che adesso può finalmente correre, ma
correre da solo. La realtà è un’altra cosa rispetto a quella dimensione di
sogno che lui sta vivendo e, nonostante lui cerchi di reiterare il
ritornello ed il sogno (riattaccando con un nuovo “ciao pà”, quasi per
destare la sua attenzione), non può nulla. Il padre non gli dice “dove è che
stiamo andando e questa vita dove mai ci sta portando”. Capisce che non era
questo il mondo che volevano, nemmeno questo cielo (forse il Paradiso dove è
salito per rincontrare il padre) è quello da loro sognato. Il sogno finisce
di nuovo miseramente, non poteva durare, tutte le speranze, l’immagine del
padre ed il suo galoppo cadono miseramente in volo con l’ultimo, unico e
straziante patapàn.
Grazie Claudio.
PATAPÀN
(Claudio Baglioni)
ce l'ho ancora sulla pelle
quell'odore di colline
sono lucine o sono stelle
quelle cose
dove la campagna ha fine
ti ricordi pa'
mi tiravi per la mano
sul tuo passo più costante
tu un gigante e io un nano
mentre davi un
nome agli alberi e alle piante
e raccontavi fatti
e misteri di laggiù
così per lunghi tratti
e se non ce la faccio più
tu mi trovavi un legno
e io ci montavo su
con quel cavallo e un regno
e uno schiocco e patapàn
al galoppo e all'avventura
sotto a quel tuo naso grosso
messo come prua
e non avevo mai paura
dentro la tua
scia ti stavo sempre addosso
e nella sera chiara
da lontano l'armonia
di un suono di fanfara
di un tam tam di prateria
e le tue braccia forti
che indicavano la via
ai miei ginocchi storti
e agli occhi e patapàn
patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn patapàn patapàn patapàn patapàn
ciao pa'
ma quante strade di sentieri bianchi
e quante ancora e ancora no
non siamo stanchi
lo vedi come corro
così veloce
dietro al tuo fischio
e quella voce
se resti indietro aspetto
sotto la croce e scoppia
il petto e in coppia
andiamo avanti
e patapàn
e sul ciglio di un burrone
tu facevi quella finta
di una spinta in giù
e io ridevo col fiatone
e mi alzavi
su nella camicia stinta
e ti sentivo dire
di chi c'è e chi non c'è più
e non poter capire
perché non è come un tram
su cui chi si vuol bene
sale e viaggia e scende giù
ma tutti quanti assieme
per sempre patapàn
patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn patapàn patapàn patapàn patapàn
ciao pa'
così hai saltato giù e ora sei in volo
ti sei fermato un giorno e
io corro solo
perché non m'hai aspettato
e stai lontano
e non mi prendi
più per la mano
e senza un legno adesso
un po’ più piano vado
e spesso cado
ma andiamo avanti
ciao pa'
ma dimmi dove è che stiamo andando
e questa vita dove mai
ci sta portando
non era questo il mondo
che volevamo
e non è il cielo
che sognavamo
non è quel tempo, è adesso
in cui dobbiamo stare
e lo stesso andare
e andiamo avanti
e patapàn |