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PREMESSA
PREMESSA: siccome ho ricevuto e-mail di fans di Baglioni e di altri cantanti
che mi “ammonivano” di non aver colto la giusta interpretazione di certi
versi in mie precedenti recensioni, ci tengo a dire, quantunque ce ne fosse
ancora bisogno, che le recensioni da me fatte rispondono ad una
interpretazione del testo del tutto personale, che, quando possibile, è
aiutata da interviste o battute degli autori delle stesse canzoni. E’
patrimonio dell’intelligenza umana poter registrare il fatto che uno stesso
verso, strofa o intera canzone possano avere interpretazioni diverse ed a
volte addirittura contrastanti.
Ebbene sì, sono tornato al mio vecchio amore: le recensioni delle canzoni di
Baglioni. Oramai è più di un anno che non ne recensisco una, rapito da un
ritorno di fiamma per Guccini e Vecchioni e da una deandreite acutissima che
in pochi mesi ha travolto i miei sensi e annientato le mie resistenze che
caddero “come corpo morto cade”.
Forse questo ritorno ad una canzone del disco “Oltre” del ’90, per di più ad
una canzone tra le più famose del cantautore romano, si spiega col fatto che
l’ultimo album, tranne qualche perla, non mi ha particolarmente
appassionato.
“Mille
giorni…” si inserisce in un sistema-disco (Oltre, appunto) pressoché
perfetto. Oserei definire l’intero disco come una sorta di “Canzoniere
moderno”, con rime che avvertono un bisogno di far combaciare la propria
esistenza con l’assoluto per le prime canzoni, ricordi, aneddoti col tempo
che prosegue sulla linea retta delle varie stagioni della vita, per fermarsi
a cercar di cogliere “l’attimo eterno che non c’è” proprio con canzoni come
questa, fino a ripartire ed approdare al quasi fantomatico e sicuramente
provvisorio porto della pace nell’ultima canzone (Pace), dove si accenna a
tutti gli sbagli del passato di un uomo perfetto nella sua imperfezione
(“quando poi si nasce e il primo grido è un pianto” di leopardiana memoria),
uomo che con stilemi petrarcheschi ricorda aneddoti “in sul mio primo
giovenile errore”, coerente con uno spirito quasi umanista ed oserei dire
neoplatonico che esplode nel sottotitolo dell’album “un mondo uomo sotto un
cielo mago”. Proprio questa rivendicazione dell’importanza della figura
dell’uomo, della sua intelligenza (che qui è termine di puro significato
etimologico e tende ad unire l’umano al divino) rappresenta il trampolino di
lancio per raggiungere l’oltre tanto agognato e riappare negli ultimi versi
dell’ultima canzone dell’album, a mo’ di suggello corale:
“forse un mondo uomo
sotto un cielo mago
forse me…”
E’ perfettamente ovvio che, comunque, non si può racchiudere l’essenza del
genio creativo e poetico di un album come Oltre in queste brevi nozioni
proemiali.
Mille giorni di te e di me. Già il titolo è di una allusività unica.
L’identificazione quantitativa del numero mille, con la sua incisività e
precisione, rappresenta un concetto che si avvicina molto ad un numero
quantificabile nell’infinito. Da sempre in poesia (e non solo) il numero
cento o mille rappresentano “una moltitudine di volte”, sono allegorie
cariche di una grandezza oggettiva. Nelle stesse canzoni di Baglioni queste
figure sono molto presenti, si pensi a “cento e più tramonti dietro i fili
del tram” (Strada facendo) o i “cento ponti da passare e far tremare la
ringhiera” (Avrai) e si potrebbe continuare a lungo, anche col numero mille.
Qui il numero mille richiama il forte legame che ha unito i due amanti, in
un mondo idillico dove esistevano solo due corpi e due dimensioni, un “te”
ed un “me” uniti a formare un amore che si pensava eterno.
Metricamente la canzone è abbastanza liscia e senza particolari da rilevare
per estrarne un significato soprasegmantale. Resta la bellezza, nelle stanze
strofiche iniziali ed in quella subito dopo il ritornello, dell’uso del
verso di tredici sillabe (ed a volte anche maggiore o minore, comunque
ipermetri e maggiori del canonico endecasillabo) da cantare tutto d’un
fiato, ispirazione subitanea ed improvvisa come delle rivelazioni che
spiegano il testo. Quest’uso del verso è particolare nel mondo poetico
baglioniano, da confrontare con altre canzoni come “Io dal mare”:
Saranno stati scogli di carbone dolce
[…]
di una luna che squagliò un suo quarto
o “Naso di falco”:
quando l’aria è trasparente e non si tocca
[…]
se la luna ha veramente occhi, naso e bocca
In Mille giorni… questi versi sono:
da tutto e tutti per non farmi più trovare
[…]
liberi finalmente e non saper che fare
[…]
ti ho fatto male per non farlo alla tua vita
[…]
dolente mi levai “imputato alzatevi” [con ictus e spostamento dell’accento
su “alzatevi”, che diventa parola piana “alzatèvi”]
per ripresentarsi, poi, nella stanza successiva al primo ritornello. Da
sottolineare, poi, la potenza espressiva del “congedo” alla fine della
canzone (da “incontro a chi”, fino alla fine della canzone) che rappresenta,
forse, il punto di massima ispirazione dell’intero album.
I primi versi sono molto criptici. Probabilmente quel gioco di nascondigli
appartengono ad una poesia fatta di sensazioni, di concetti che rimandano (a
volte per sillogismo, altre per metafora) a situazioni altre, richiamate
alla mente da termini allusivi. Ad esempio: qui la parola nascondersi è
ripetuta per rendere, attraverso il significato comune del termine, un
concetto col quale colorare la storia d’amore tra i due amanti. Dunque quel
nascondersi forse allude ad un certo “fondersi dei due corpi”, ad un riparo
dove lasciarsi andare ad un sentimento vivo e profondo, che preclude
qualunque interferenza del mondo esterno di “tutto e tutti”. Voglio dire
che, proprio attraverso la ripetizione di parole unite da un rapporto
etimologico preciso (in questo caso nascondere), Baglioni esegue un fine
esempio di espressività e dona un saggio di bravura nel “burattinare la
parole” (per usare un’espressione gucciniana) degno del miglior Guittone
d’Arezzo (si ricordi la celeberrima “Tuttor ch’eo dirò “gioì’”, gioiva
cosa”).
Questi primi versi hanno il compito di fissare subito in mente l’immagine
della storia d’amore, la sua caratteristica di idillio perfetto tra i due
amanti durante quei mille giorni. E’ un amore che escludeva qualsiasi
intromissione. Importante una certa situazione di riflusso e di scambio di
ruolo tra i due amanti. C’è un’esigenza di riconoscere “il più forte tra i
due”, quello che ha il sentimento più vero e profondo e che riesce a
garantire la solidità del rapporto. Prima è lei che lo nasconde dagli altri.
Successivamente è lui che si erge a paladino del loro regno, fino a
nascondersi egli stesso dagli altri “per non farmi più trovare”, rendendo
diafana la presenza della coppia tra la gente, forse idealizzando un amore
senza tregua, fino a diventare aria, nascosto, quasi privo di una passione
che derivava probabilmente dall’indispensabile rapporto con una realtà, un
contrasto che rendeva il sentimento ogni volta nuovo e che a questo punto
pare perso per sempre. Escludere la realtà non si può fare. Si finisce (pare
dire Baglioni) col continuo riflusso di sole due esistenze in un corpo solo
e si perde quello stimolo di confronto con gli altri che appare
indispensabile per la vita della coppia e che nei ritornelli causerà dei
dolori nel ricordo. Insomma: “quando si era insieme ci mancava il mondo, ora
che abbiamo il mondo manca un rifugio come fu il nostro amore”, mi si
perdoni la grossolana banalizzazione. L’uomo finì non solo per non farsi più
trovare dal mondo esterno, ma anche dall’amante stessa, fino a distaccarsene
completamente e diventare un imputato in un processo dell’abbandono. Quel
“per” del secondo verso avrebbe così un significato di “fino a” (ho finito
PER non farmi più trovare), invece dell’interpretazione più logica che ci
darebbe un complemento di fine. Sotto questo aspetto assume enorme carica
suggestiva l’apparente controsenso dell’io poetico che nasconde la donna
fino a non farsi trovare più lui stesso, non la donna nascosta.
Quando “l’ingorgo di anime” e quell’intrecciarsi di passioni e sentimenti
finisce, torna l’ordine, si torna “ognuno al proprio posto”. Importante il
ruolo del termine “finalmente” del quarto verso. Sembra che in quei mille
giorni i due amanti avessero sognato la libertà ma è evidente la carica
antifrastica del termine in questo caso. L’isolamento che l’amore aveva
prodotto si scontrava con la voglia di libertà e questo verso parrebbe
suffragare l’interpretazione della grave mancanza con un confronto con la
realtà esterna alla coppia. Sembra molto vicino, in questo caso, il senso
della canzone di Masini “Viva la libertà” ed in particolare dell’ultimo
verso “due innamorati ce l’hanno la libertà”.
Quando il “processo” comincia l’imputato/io poetico ammette di non aver
lasciato a lei motivi e colpe. L’amore è semplicemente finito e forse questo
è il motivo più chiaro che possa mai esserci. La confessione dell’imputato
avviene ancora prima che il giudice lo chiami a deporre. La donna è in una
misteriosa posizione “in piedi contro il cielo” che forse vuole descriverla
come in preda a pensieri più grandi di lei, di fronte ad un abbandono che in
effetti era stato immotivato all’apparenza, persa senza un motivo o una
colpa, sconfitta e tradita dall’amore si ritrovava a combattere con
l’immenso e inspiegabile cielo, insondabile e dispersivo.
La deposizione inizia, parte il primo ritornello e, proprio perché l’io
poetico non sa trovare un alibi (forse perché non è colpevole?) inizia col
presagire un altro amore, una possibilità di riscatto con il quale, però,
mai potrà dimenticare quei mille giorni che persistono come l’indelebile
profumo di lei. Assolutamente non è casuale la scelta del profumo come
elemento concreto e sensibile, metafora di modi di fare che la futura altra
compagna crederà appartenere all’io poetico, e che invece appartenevano allo
stare insieme in quei mille giorni. L’imputato si sente sconfitto quanto la
donna. Per questo presagisce un futuro di piccole sofferenze in una nuova
relazione. Vuole dividere il dolore, vuole introdurre l’amico che in un
prossimo futuro le presenterà.
Torna prepotente il ricordo dell’amore e viene perfettamente descritta la
separazione tra la coppia ed il mondo:
io e te che facemmo invidia al mondo
avremmo vinto mai
contro un miliardo di persone
quasi ad indicare ad una personale difesa, tanto labile quanto appena
accennata. Anche qui è di molto peso sottolineare come l’identità della
quantità vada collegata alla parola mondo. Non ci si riferisce ad una
situazione particolare che abbia fatto finire l’amore. L’amore finisce
sempre da sé ed in questo caso è stato straziato dal gioco di eclissamenti
descritto nei primi due versi, finendo per ritorcersi in sé stesso e quasi
ad implodere, lontano dal “miliardo di persone” che certo non rappresentano
una situazione concreta di causa ed effetto.
Mi piacerebbe uscire per un attimo dal livello semantico del commento per
sondare il verso “e una storia va a ******e, sapessi andarci io” – mi si
perdoni la virgola all’interno del verso ma è per evidenziare il distacco
tra i concetti all’interno del verso, laddove invece i versi di Baglioni
andrebbero sempre letti senza punteggiatura per conservare quel prezioso
ermetismo ed importanza delle continue analogie che sono caratteristiche
della maggior parte della produzione del cantautore romano. Nell’immaginario
poetico di molti cantautori italiani nel tema del sesso non è condannabile
il rapporto con le prostitute. Volendo fare un esempio illustre potremmo
citare De André che, anzi, esalta le prostitute e, comunque, chi fa l’amore
“per passione”, ergendo a eroine dell’amore personaggi come Bocca di rosa,
la misteriosa Nancy, fino alla più “perversa” Prinçesa, forse esaltato da
reminiscenze baudelairiane e maledette. Anche Baglioni accenna ad un amore
forse ancillare nella canzone Dagli il via:
feci l’amore il primo insieme a una
senza guardarla mai né dire niente
ed è interessante citare anche il Guccini della canzone Bologna:
ed io modenese volgare a sudarmi un amore
fosse pure ancillare
Qui però Baglioni rifiuta categoricamente l’idea di potersi “consolare” con
una peripatetica. Si potrebbe scorgere un azzardo borghese in questo
comportamento, condizionale d’obbligo perché si deve tener presente
l’atmosfera della canzone, il richiamo a quello che più tardi Baglioni
definirà l’attimo di eterno. Il motivo primo della canzone, che cerca di
capire se è possibile eternare un amore (anche solo un attimo, parte di
esso), striderebbe decisamente con il ricorso ad un amore facile e che trova
nella fugacità una delle sue caratteristiche primarie.
Dopo il ritornello riprende puntuale il motivo della separazione “senza far
niente” perché “niente poi c’era da fare”, con una immagine di fuga e
l’introduzione di un’altra persona, parte di quel “tutti” del fondamentale
secondo verso (io credo che nei primi due versi possa davvero essere
rinchiusa la chiave di lettura dell’intera canzone). Il mondo torna
protagonista nella vita dei due ex amanti e proprio il riaffacciarsi al
mondo aveva creato disagio nel primo ritornello. A quel punto l’unico modo
per eternare l’amore era proprio farlo morire, renderlo vivo nel ricordo.
Mai il mondo (qui il “lui” del “finimmo prima che lui ci finisse”) avrebbe
potuto entrare nel loro connubio amoroso e mai l’imputato potrebbe incolpare
la donna per quella storia crollata su sé stessa.
Successivamente viene introdotto un tema capitale nella poetica baglioniana:
nei versi
volevo averti e solo allora mi riusci'
quando mi accorsi che ero li' per prenderti
troviamo il tema dell’amore e del bene che aumenta proprio nel momento
dell’abbandono. Se ne trova un esempio nel Baglioni di Tamburi lontani (in
Oltre):
le storie muoiono
quando c'e' piu' paura
di perdersi
che voglia
di tenersi e com'e' dura
quella soglia
Questo tema sarà splendidamente sviluppato nell’ultima parte del secondo
ritornello e nel “congedo”.
Il secondo ritornello si muove sulla falsariga del primo, con una mirabile
metafora della confusione dei fogli, che dovrebbe rappresentare lo
scombussolamento creato nell’io poetico da quell’addio. Da segnalare anche
le istanze realistiche dell’armadio e di una scrivania in disordine, che
contrastano molto efficacemente con la situazione dolorosa e non tangibile
della separazione.
Ma nell’ultima parte, come detto, il genio baglioniano raggiunge vette
elevatissime. Il volersi bene di più nel momento dell’abbandono viene reso
con il ripetersi della scena del primo incontro amoroso. L’amore, che allora
ha trionfato e che si trovava ai livelli più elevati possibili, nel momento
del distacco si riempie della stessa quantità che servì al momento
dell’unione. Nel millesimo giorno i due amanti rivivono il primo, solo che
la situazione è capovolta, i due non si avvicinano, bensì si allontanano e
separandosi si avvicinano al mondo, a quel “tutto e tutti” del secondo
verso. Agli altri amori i due insegneranno quello che non capirono, un
sottile non sense completamente calcolato. Insegneranno cos’è l’attimo di
eterno. Credo che si possa individuare nella ricerca dell’attimo di eterno
il motivo ispiratore della completa opera artistica di Baglioni, il tema che
lancia l’ispirazione e che in altre canzoni si identifica ora come “eterno
istante” (Cuore di aliante), ora come “istante immenso” (La vita è adesso).
Qui l’attimo di eterno non c’è; può essere che non ci sia al momento della
narrazione, dunque c’è stato, ma non avrebbe granché senso un eterno che è
stato e che non è più. Dunque anche qui l’eternità alberga assolutamente nel
ricordo e l’attimo di eterno è sinonimo di “un po’ di eterno”, un pezzo di
vita e di storia: i nostri mille giorni, schiettamente nominati con un
rispettoso interrompersi della musica.
Qui parrebbe che Baglioni volesse comunicare il fatto che con l’amore è
impossibile raggiungere l’eternità ma sappiamo quanto labile sia una
considerazione così netta. Forse è quel particolare amore che era destinato
a finire, e la passione sarebbe stata gioco di specchi dove i due amanti
avrebbero voluto che “qul nostro amore non avesse fine”.
Fatto sta che l’amore è finito ed a sancirne la fine, come un volerci
rassicurare di questo, è dato dal fatto che Baglioni si presenta alla sua ex
amata come amico. Quel “ti presento un vecchio amico mio” ha il sapore della
sconfitta, riproposta anche con l’evidenziare ancora che il loro amore
continua nell’istante della separazione, solo in quell’istante. E forse
proprio quello della separazione è “l’attimo di eterno” al quale ci si
riferiva. In quel momento sì che l’amore è immenso, proprio come il cielo di
fronte al quale si trovava in piedi la ragazza.
MILLE GIORNI DI TE E DI ME
(Claudio Baglioni)
Io mi nascosi in te poi ti ho nascosto
da tutti e tutti per non farmi piu' trovare
e adesso che torniamo ognuno al proprio posto
liberi finalmente e non saper che fare
non ti lasciai un motivo ne' una colpa
ti ho fatto male per non farlo alla tua vita
tu eri in piedi contro il cielo e io cosi'
dolente mi levai imputato alzatevi
chi ci sara' dopo di te
respirera' il tuo odore
pensando che sia il mio
io e te che facemmo invidia al mondo
avremmo vinto mai
contro un miliardo di persone
e una storia va a ******e
sapessi andarci io
ci separammo un po' come ci unimmo
senza far niente e niente poi c'era da fare
se non che farlo e lentamente noi fuggimmo
lontano dove non ci si puo' piu' pensare
finimmo prima che lui ci finisse
perche' quel nostro amore non avesse fine
volevo averti e solo allora mi riusci'
quando mi accorsi che ero li' per prenderti.
chi mi vorra' dopo di te
si prendera' il tuo armadio
e quel disordine
che tu hai lasciato nei miei fogli
andando via cosi'
come la nostra prima scena
solo che andavamo via di schiena
incontro a chi
insegneremo quello che
noi due imparammo insieme
e non capire mai
cos'e' se c'e' stato per davvero
quell'attimo di eterno che non c'e'
mille giorni di te e di me
ti presento
un vecchio amico mio
il ricordo di me
per sempre per tutto quanto il tempo
in questo addio
io mi innamorero' di te |